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Castanicoltura in Italia e Calabria: crisi e segnali di ripresa

In Italia, il castagneto da frutto è coltivato da meno di 18.000 aziende, su una superficie agricola di poco superiore ai 42.000 ettari (fonte: Istat, SPA 2016), soprattutto in zone di alta collina e montagna. La maggior parte dei castagneti da frutto è concentrata in sei regioni: Campania, Calabria, Piemonte, Toscana Emilia Romagna e Lazio. La superficie media investita a castagneto da frutto è di circa 2 ettari, per cui le aziende investono in castanicoltura aree di piccola dimensione.

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"Purtroppo la castanicoltura da frutto italiana vive da anni una lenta ma costante crisi. Le aziende e gli areali si sono notevolmente ridotti dal 1970 a oggi. La flessione è causata dal cambiamento nello stile di vita e del tipo di alimentazione". Così a FreshPlaza Tatiana Castellotti, ricercatrice CREA - Centro di ricerca Politiche e Bio-economia, a latere di un convegno tenutosi a Rogliano (CS).

"Ma se parliamo di sviluppo competitivo del settore, ci sono alcuni vincoli strutturali da non sottovalutare: basti pensare che, secondo i dati dell'ultimo Censimento, la maggior parte dei castanicoltori italiani ha un'età superiore ai 55 anni, mentre i capoazienda giovani di età compresa tra i 24 e i 39 anni sono il 10%: esiste quindi un problema di ricambio generazionale".

"Inoltre, quasi il 70% dei capiazienda ha un livello di istruzione pari o inferiore alla scuola secondaria di primo grado (terza media). Altro vincolo strutturale è la dimensione: l'80% delle aziende e il 40% della superficie sono compresi tra 0 e 5 ettari, mentre la superficie media investita a castagneto da frutto è poco più di 2 ettari. E' anche vero che tra il 2000 e il 2016 vi è stato un aumento della superficie media che è passata da 1,15 ettari del 2000 ai 2,4 ettari del 2016".

La ricercatrice sottolinea anche che l'abbandono dei castagneti ha favorito la diffusione di fitopatie e, negli ultimi anni, la più grave minaccia è stata rappresentata dal cinipide, insetto che ha ridotto drasticamente la produzione italiana di castagne.

"Pur non essendoci dati certi relativi agli ultimi anni, in quanto l'Istat non rileva più le cifre sulla produzione dal 2008, possiamo però ritenere queste rappresentative della produzione italiana prima del cinipide. E la Calabria risultava una delle principali regioni produttrici del frutto", spiega Castellotti. "Se però si guarda all'ultima indagine SPA (Struttura e Produzione della Aziende agricole) del 2016, si rileva come la Regione registri una perdita notevole di aziende (-15%) e di superfici (-48%), rispetto al Censimento del 2010, soprattutto a causa del cinipide".

"Rispetto al resto d'Italia, dove la situazione è in fase di recupero, il cinipide è arrivato per ultimo in Calabria, e quindi ci vorrà ancora un po' di tempo perché la Regione sia in grado di gestire l'insetto. Anche se l'antagonista sta svolgendo la sua funzione e quindi i lanci, in molte aree, possono essere sospesi, si prevedono ancora due-tre anni affinché la produzione si riprenda, tornando ai livelli precedenti la comparsa del cinipide".

Secondo la ricercatrice, il recupero a livello nazionale spiegherebbe anche il dato sull'import-export di prodotto tra il 2016 e il 2017, in favore delle esportazioni.

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"L'Italia è stato sempre un esportatore netto di castagne, frutto che ha rappresentato il made in Italy all'estero. Dal 2011, però il nostro Paese aveva dovuto cominciare a importare, perché la produzione nazionale era crollata". In Calabria, la flessione di produzione si è invece registrata successivamente, con l'arrivo più tardivo del cinipide.

Cosa bisogna fare?
Castellotti sostiene che bisogna aumentare la produttività con il miglioramento delle tecniche colturali, recuperare i castagneti esistenti e puntare su nuovi impianti. "Ma questo è possibile solo con un aiuto pubblico (nazionale o regionale), in quanto i castanicoltori non hanno reddito derivante dalla produzione di castagne, al momento, e da soli non possono autofinanziarsi".

"Inoltre, è importante organizzare la filiera, promuovendo l'associazionismo dei produttori, anche a livello regionale. "La produzione è garantita da molti castanicoltori di piccole dimensioni che offrono frutti molto diversi per varietà e qualità. I commercianti di castagne fresche e l'industria del trasformato chiedono, invece, grandi volumi di prodotto omogeneo. E' qui che entrano in gioco gli intermediari; ma più passaggi ci sono e meno viene riconosciuto al produttore, il quale vende il frutto senza alcun tipo di lavorazione. Si pensi, ad esempio, a una selezione delle castagne migliori, alla pulitura o alla curatura". 

"Sono necessari da 3 a 4 passaggi di intermediari nelle regioni dove mancano forme di aggregazione dell’offerta (in Calabria per esempio). Il numero di passaggi diminuisce nelle aree a imprenditoria castanicola più evoluta e laddove c’è stato sviluppo di integrazione tra le varie fasi della filiera (Campania, Toscana, Piemonte e Lazio).  Pertanto, in molti casi, i mediatori hanno costruito, dopo il magazzino, centri di prima lavorazione (cernita, calibratura, curatura), per poi consegnare il prodotto fresco a grossisti e Gdo; in qualche caso, hanno creato centri di prima trasformazione (pelatura), per poi consegnare all'industria".

"In più, bisogna migliorare la qualità della produzione e valorizzare la multifunzionalità della castanicoltura anche attraverso la diversificazione delle attività economiche svolte dalle aziende castanicole. D'altra parte, sono questi gli obiettivi previsti dal Piano Nazionale del settore castanicolo per il prossimo triennio, superata la fase dell'emergenza cinipide".

In Campania e Piemonte si concentrano alcuni tra i più importanti operatori della filiera castanicola italiana ed europea. Queste due Regioni sono le uniche a esportare sia prodotto fresco sia trasformato.

Contatti:
Tatiana Castellotti
CREA - Centro di ricerca Politiche e Bio-economia
Email: tatiana.castellotti@crea.gov.it