Malgrado i pareri discordanti, il calo drastico delle ciliegie in Puglia fa comprendere due concetti basilari: le strutture di protezione sono lo strumento più importante per condurre una frutticoltura di qualità e (di quantità); occorre poi un ringiovanimento degli impianti cerasicoli.
"La realtà è che abbiamo vissuto di rendita, sinora, convinti di poter produrre ciliegie con tecniche e standard tradizionali, anche quando il mondo intero e diversi settori merceologici fanno i conti con i cambiamenti climatici, che compromettono i quotidiani processi produttivi. È impensabile che il maggior produttore di ciliegie in Italia, cioè la Puglia, non abbia investito tempo e risorse per mettere in campo nuove cultivar e aiutare concretamente i produttori a rinnovare le coltivazioni. Mentre gli altri areali italiani hanno lavorato tanto sulla ricerca, mettendo in campo nuove cultivar coperte ora da brevetto, noi, negli ultimi anni, abbiamo estirpato diversi ettari di ciliegie senza sostituirli, per un valore totale non inferiore al 30% delle superfici presenti", spiega l'agronomo e imprenditore Antonio Guglielmi.
© Antonio Guglielmi
Per l'operatore pugliese, un altro fenomeno da tenere in considerazione è che molte aziende possiedono piante di ciliegio a fine ciclo produttivo. "Sono impianti obsoleti, anche di 20-25 anni, la cui capacità produttiva si è notevolmente ridotta anche del 40% rispetto al passato. Coltiviamo varietà non di recente introduzione, come Bigarreau e altre autofertili presenti in regione da decenni, che non sono più in grado di adattarsi alle condizioni climatiche e ambientali attuali, come il basso fabbisogno in freddo a causa degli inverni sempre più miti".
Coprire i ceraseti significa metterli al sicuro da shock termici e da altre dinamiche spiacevoli. "Oltre a non esserci stati investimenti per coprire le produzioni o un adeguato rinnovo varietale, come è accaduto per l'uva da tavola ad esempio, non si è verificato neppure un rinnovo dei portainnensti. Non ci possiamo permettere di utilizzare portainnesti nanizzanti, tipici degli impianti intensivi o superintensivi. Bisogna rivedere tante cose: serve un cambiamento di mentalità, varietale, organizzativo, ma sempre in un'ottica di filiera e della cooperazione. Inoltre, le istituzioni dovrebbero investire più sulla ricerca, piuttosto che per la realizzazione di nuovi impianti improvvisati, privi di una strategia quanti/qualitativa nel comparto cerasicolo".