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Paolo Inglese, Presidente della SOI:

"La ricerca di base in agraria e' tutta sulle spalle di una grande passione mal retribuita"

FreshPlaza ha intervistato Paolo Inglese, Professore ordinario di Arboricoltura Generale e Coltivazioni Arboree presso l'Università degli Studi di Palermo, nonché Presidente della SOI-Società di Ortoflorofrutticoltura Italiana, per fare il punto sullo stato e sulle prospettive della ricerca italiana in campo agrario, con particolare riguardo al settore ortofrutticolo.

FP - La ricerca in campo agrario e orto-floro-frutticolo è un processo che coinvolge ogni giorno moltissimi scienziati e ricercatori in tutto il mondo. Quanti lavorano in questo campo, nel nostro paese?

PI - A livello universitario, se mettiamo nel conto professori ordinari, associati e ricercatori stabili, in Italia operano 196 persone, di cui 144 dedite al settore delle colture arboree. Si tratta, a ben vedere, di numeri limitatissimi e spesso incongrui rispetto alla realtà. Prendiamo per esempio la viticoltura siciliana: con 120.000 ettari, è leader mondiale del settore. Ma i ricercatori universitari "di ruolo" che si occupano di questo comparto, nel campo specifico della viticoltura, si contano sulle dita di una mano.

La vera forza che porta avanti la ricerca universitaria in agraria nel nostro Paese sono le centinaia, tra studenti, dottorandi, borsisti, assegnisti, ricercatori a tempo determinato e volontari che, per pura passione, lavorano giorno dopo giorno. E' sulle spalle della loro volontà e della loro dedizione mal retribuita che il sistema della ricerca pubblica si regge. Non so ancora per quanto, tuttavia.


Paolo Inglese, Presidente della SOI-Società di Ortoflorofrutticoltura Italiana. (Foto: FreshPlaza)

FP - Quanto investono le imprese italiane in ricerca di base e/o applicata in questo settore?

PI - Gli investimenti diretti di aziende e organizzazioni di produttori sono pochissimi, forse un 3-4% del totale. Le imprese, inoltre, non sono quasi mai interessate alla ricerca di base e tendono ad orientarsi solo su progetti che possano portare loro ritorni e benefici immediati. I grandi gruppi, infine, fanno ricerca per conto loro.

Qualcosa di più arriva all'Università attraverso le Fondazioni bancarie, ma la vera risorsa per finanziare la ricerca rimangono i fondi europei. Anche in quest'ultimo caso, però, servono due fattori essenziali: uno staff di ricerca e di progetto che funzioni e un dipartimento universitario in buona salute finanziaria, capace di anticipare le spese.

Il quadro cambia completamente se guardiamo alla realtà statunitense. L'esempio della fragola in California è eclatante: i produttori, invece di ricorrere ai pur ottimi breeders privati, hanno affidato il programma di selezione varietale all'Università di Davis, risparmiando non poco in termini di royalties. In Italia, al di là del Programma "Liste di orientamento varietali", che pure era partito con l'approccio giusto, la ricerca sul miglioramento genetico rimane confinata in un recinto, con pochi finanziamenti pubblici e ancor meno privati.

FP - Quali sono i filoni di ricerca che Lei considera più promettenti per il futuro?

PI - Vedo tre grandi strade maestre: quella della ricerca genomica, quella dello sviluppo di tecnologie post-raccolta e quella della ricerca agronomica. La prima riveste un'importanza enorme e l'Italia è stata parte attiva nella decodifica del genoma di pesco, melo, vite, mentre ora parte la ricerca su quello dell'olivo, con un progetto tutto italiano e tutto affidato ai Colleghi del mio settore disciplinare. Non si tratta solo di una ricerca di base, in quanto coinvolge scienziati che lavorano attivamente sulle sue notevoli applicazioni.

Per quanto riguarda la gestione delle fasi post-raccolta degli ortofrutticoli, qui la ricerca comporta un'enorme ricaduta economica positiva per le imprese. Pensiamo a quei filoni ad alto valore aggiunto, quali il prolungamento della conservabilità dei prodotti freschi (shelf-life) o le nuove tecnologie di packaging, o la quarta gamma. Non è un caso se gli economisti misurano in un bel 60% l'incidenza del contenuto di servizio sul valore finale del prodotto.

Vedo invece sottovalutata, o ridimensionata rispetto al passato, la ricerca agronomica, che considero invece di fondamentale importanza. In questo campo vanno ricompresi gli studi su nuovi impianti, varietà, metodiche di gestione colturale, sostenibilità. Il venir meno di questo pilastro rischia di trascinarci in una crisi epocale, con la scomparsa di intere tradizioni e patrimoni agricoli. Penso ad esempio alla nostra storica olivicoltura - festeggiamo proprio in questi giorni i 50 anni dell'olio extravergine! - per la quale non esiste nessuno studio, realmente coordinato a livello nazionale, su una proposta italiana di nuovi modelli di impianto.

FP - Comunicare il valore aggiunto che la ricerca scientifica può rappresentare per le imprese, non è sempre facile. Su quali elementi puntare?

PI - Se si pensa a come è esploso il contenuto tecnologico in agricoltura negli ultimi 30 anni, ci si rende conto di quanto la ricerca scientifica abbia contribuito in modo tangibile allo sviluppo di questo settore. Il sistema Italia ha avuto meriti enormi, che hanno travalicato i nostri confini nazionali: prenda il caso dei ricercatori e dei tecnici romagnoli, i quali hanno fatto scuola a livello internazionale e hanno esportato la frutticoltura in tutto il mondo.

Oggi, invece, importiamo dall'estero nuovi metodi, nuove varietà, nuove soluzioni: stiamo perdendo il nostro ruolo di leadership come fornitori di soluzioni agronomiche, anche se forse lo stiamo mantenendo come fornitori di servizi. Quello che vedo al momento, purtroppo, è la distanza sempre maggiore che si apre tra ricerca e imprese, la perdita di contatto: che si tradurrà in un danno per entrambe le parti.