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Aggiornamento dopo l'articolo del 31 agosto 2020

Moria del kiwi e stanchezza del terreno: principi generali per il recupero degli impianti

In un precedente articolo pubblicato lo scorso 31 agosto 2020 - Clicca qui per rileggere il testo - veniva descritta la relazione tra moria del kiwi, stanchezza del terreno e DNA nel suolo, riportando i risultati preliminari di una sperimentazione per il recupero di impianti di actinidia in avanzato stato di declino. Una ricerca condotta dal Laboratorio di Ecologia Applicata e Sistemi Dinamici, coordinato dal Prof. Stefano Mazzoleni del Dipartimento di Agraria dell'Università di Napoli Federico II, in collaborazione con il professionista Franco Saccocci.

"Lo studio – riferisce il gruppo di ricerca - se da una parte ha suscitato grande interesse per coltivatori, tecnici e membri della comunità scientifica, i quali hanno fornito testimonianze evidentemente coerenti con la nostra spiegazione, dall'altra, invece, è stato oggetto di critiche, in quanto alcuni hanno sostenuto che l'associazione da noi proposta tra moria e stanchezza non fosse veritiera, riferendosi a esempi di moria del kiwi in impianti estremamente giovani, su suoli precedentemente non interessati dall'actinidicoltura".

"Crediamo che questi casi siano solo apparentemente in contrasto con la nostra ipotesi e che possano, piuttosto, rappresentare ulteriori esempi utili per chiarire degli aspetti importanti del problema. Per questo motivo, riteniamo opportuno rispondere alle perplessità emerse, non solo spiegando meglio il fenomeno dell'auto-inibizione da self-DNA che, secondo noi, è alla base della stanchezza del terreno, ma fornendo anche maggiori dettagli sulla sperimentazione in corso. Informazioni che verranno illustrate nelle prossime righe".

Come premessa, è necessario ricordare come la stanchezza del terreno sia un fenomeno complesso e fortemente influenzato da diversi fattori e dalle loro interazioni. In particolar modo: tessitura e contenuto di sostanza organica del suolo, biodiversità vegetale e microbiologica, condizioni di ruscellamento e percolazione dell'acqua (Franco Zucconi, Declino del suolo e stanchezza del terreno, Edizioni Pitagora - 2003).

Chiunque abbia avuto esperienze dirette con il fenomeno della stanchezza (talvolta definito sindrome da reimpianto), troverà familiari le seguenti osservazioni, di cui riportiamo la nostra spiegazione associata all'ipotesi di inibizione da self-DNA:

1. Successivamente a un espianto, la stanchezza del terreno si protrae per più anni in suoli pesanti di quanto non faccia in suoli leggeri. I complessi minerali e argillosi nel suolo intrappolano il self-DNA rilasciato durante tutto il ciclo colturale, impedendone la lisciviazione e la decomposizione ad opera dei microorganismi.

2. In suoli carenti di sostanza organica la stanchezza è più intensa e compare più rapidamente mentre, al contrario, le concimazioni organiche, quando non fatte con i residui della stessa coltura, sono utili a ritardare il manifestarsi della stanchezza. Suoli ricchi di sostanza organica, o regolarmente concimati in modo organico con compost e residui vegetali non provenienti dalla stessa coltura, presentano maggiore biodiversità microbiologica e ricchezza di DNA eterologo, cioè non appartenente alla pianta coltivata (fig. 1).

3. L'uso di grandi quantità di acqua in terreni ben drenanti, così come l'allagamento periodico dei campi, riducono la stanchezza. Il DNA è una molecola idrosolubile ed è pertanto facilmente dilavabile dall'acqua.

4. La rotazione colturale con specie lontane filogeneticamente, la pratica del maggese e le consociazioni colturali permettono di prevenire o eliminare la stanchezza, così come l'uso di porta innesti può risultare vantaggioso per mitigare problemi di reimpianto della stessa specie. La stanchezza, così come il DNA, sono specie-specifici, la successione colturale, la consociazione di specie diverse, l'uso di portainnesti filogeneticamente distanti dalla varietà coltivata permettono di ovviare al problema.

Figura 1- Spiegazione della stanchezza del terreno in relazione alla composizione specifica del DNA nel suolo. A sinistra: suolo povero di sostanza organica, con microbioma compromesso e forte accumulo di self-DNA della coltura (pianta con apparato radicale compromesso ed evidenti sintomi di deperimento). A destra: suolo ricco di sostanza organica con microbioma ad alta biodiversità e DNA nel suolo eterospecifico rispetto alla coltura (pianta vigorosa).

Molte pratiche agronomiche impattano negativamente sulla sostanza organica e sul microbioma del suolo causando l'aumento delle condizioni di stanchezza: il livellamento del suolo (con conseguente eliminazione dell'orizzonte organico in molte aree dell'impianto), le lavorazioni profonde con riporto in superficie degli orizzonti minerali (non organici), le sterilizzazioni del suolo con distruzione della diversità microbiologica, l'uso continuativo e massiccio di erbicidi, concimi minerali e fitofarmaci ad azione biocida. Tutte queste azioni, spesso ripetute e sommate tra loro, inducono un aumento relativo del self-DNA colturale rispetto alle situazioni di biodiversità di un microbioma sano, con la conseguente comparsa dei sintomi di stanchezza e moria.

All'inibizione degli apici radicali quando esposti al self-DNA segue la loro necrosi (Mazzoleni et al. 2015) e infine il deperimento della pianta che diventa vulnerabile ad attacchi di patogeni e parassitari e agli stress di tipo abiotico. Attraverso una dinamica auto peggiorativa di tipo esponenziale, le prime piante sofferenti iniziano a perdere progressivamente porzioni di apparato radicale, causando un ulteriore incremento di self-DNA nel suolo circostante. L'apparato radicale compromesso comporta ovviamente la defogliazione delle piante e ancor di più aumenterà l'accumulo di self-DNA nel suolo che, per diffusione, propagherà il deperimento anche alle piante vicine, inizialmente senza sintomi. Questo circolo vizioso causa la tipica propagazione a macchia d'olio della moria con formazione di gradienti nei campi della distribuzione della malattia, coincidenti con le linee di deflusso dell'acqua sempre presenti anche nel caso di campi livellati.

Comprendendo l'ecosistema nella sua complessità, si capisce allora perché la nostra interpretazione della moria possa spiegare bene anche il caso degli impianti giovani, quando caratterizzati da scarsa quantità di sostanza organica nel suolo e squilibri microbiologici evidentemente dovuti alle pratiche distruttive dell'equilibrio del suolo prima indicate.

Alla luce di quanto detto è quindi curioso osservare che molte operazioni, talvolta consigliate come rimedi al problema della moria del kiwi, sono in realtà (nel medio e lungo termine) aggravanti rispetto al problema della stanchezza del terreno. Questo avviene nel caso di soluzioni sintomatiche, in grado di rendere momentaneamente meno evidenti i sintomi della stanchezza, ma che impattano negativamente sulle dinamiche alla base della stanchezza stessa.

Vista la complessità del fenomeno, il recupero degli impianti non può in alcun modo prescindere da un'analisi mirata delle condizioni dell'impianto. Generalmente la prima cosa da fare è interrompere gran parte dei trattamenti che causano squilibri nel microbioma del suolo e impattano negativamente sul contenuto di sostanza organica. Solo successivamente è possibile agire per ricreare condizioni di compatibilità localizzata tra suolo e pianta.

Si è già detto prima di come le rotazioni colturali e l'uso di portainnesti siano utili in situazioni di suolo stanco, ma la tecnica più efficace e percorribile in questo contesto risulta essere l'uso di compost tea, infusi o più comunemente fermentati di compost, già da diversi anni oggetto di crescente interesse scientifico ed applicativo (Villecco et al. 2020, Chaney et al. 2020, Zaccardelli et al. 2012, Scheuerell et al. 2013). 

Alla base della tecnica vi è l'utilizzo di diversi compost, appositamente selezionati (e talvolta, secondo le necessità dell'impianto, combinati con sostanza organica non compostata), posti in infusione in condizioni aerobiche. La nostra spiegazione della moria in base alla stanchezza del suolo fornisce una buona ipotesi interpretativa del perché questo trattamento risulti benefico. Infatti, se il materiale utilizzato, il microbioma in esso presente e le condizioni di infusione e fermentazione sono adeguati, l'utilizzo dei compost tea in fertirrigazione permette di ristabilire condizioni localizzate di compatibilità suolo-pianta (fig.2). Il processo fermentativo permette la proliferazione di un gran numero e di una buona varietà di microorganismi (selezionati in base al materiale di partenza) che oltre a ristabilire l'equilibrio microbiologico del suolo, sono in grado di produrre grandi quantità di DNA eterologo che modificano la concentrazione di self-DNA accumulatosi nel terreno dell'impianto.

Figura 2 - Rigenerazione localizzata della compatibilità suolo-pianta mediante l'uso di compost-tea in fertirrigazione. Nell'area di suolo interessata dal trattamento, la pianta può sviluppare rapidamente un fitto sistema radicale sfuggendo localmente alla stanchezza del suolo dovuta all'accumulo del self-DNA.

L'utilizzo ripetuto nel tempo di compost tea somministrato in fertirrigazione permette di ripristinare ed eventualmente mantenere indefinitamente porzioni di suolo non stanco nelle quali si riformano radici attive capaci di compensare l'inefficienza dell'apparato radicale sofferente per stanchezza nel terreno circostante.

Come abbiamo osservato in diversi impianti, già dopo pochissimi giorni dal primo trattamento, le piante sono in grado di ricolonizzare con un fitto capillizio radicale l'area di suolo trattata, ricominciando ad assorbire acqua e nutrienti, invertendo in tempi sorprendentemente rapidi il decorso della moria (fig.3). Le sperimentazioni in corso mostrano evidenze crescenti di come sia del tutto possibile invertire il decorso della moria, e recuperare gli impianti esistenti anche in stati di deperimento molto avanzati. (Figura 3 in alto a destra - Pianta nelle prime fasi della ripresa, a 7 giorni dall'inizio dei trattamenti. La pianta si presentava totalmente defogliata). 

Figura 4 - Piante in piena fase di ripresa a poco più di un mese dall'inizio dei trattamenti. Le piante che si trovavano in avanzato stato di defogliazione (circa il 90% della chioma) sono state trattate con tea-compost in fertirrigazione localizzata e per dispersione a livello fogliare. 

A cura di Mauro Moreno (Dipartimento di Agraria, Università di Napoli Federico II), Franco Saccocci (Agrotecnico), Mauro Senatore (CNR – Istituto per la Protezione Sostenibile delle Piante, Portici, Italia) e Stefano Mazzoleni (Dipartimento di Agraria, Università di Napoli Federico II) 

Per maggiori informazioni:
Email1: stefano.mazzoleni@unina.it
Email2: saccocci.franco@gmail.com