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Batteriosi del kiwi: cosa fare? Il resoconto dell'incontro di Faenza (RA)

Il convegno organizzato ieri, 21 marzo 2012, a Faenza (RA) dalla Regione Emilia-Romagna ha avuto l'obiettivo di fornire una panoramica sulle tecniche di contenimento e lo stato della ricerca del progetto pluriennale che la Regione, il CRPV Centro ricerche produzioni vegetali di Cesena e le maggiori OP emiliano-romagnole hanno avviato per contrastare la batteriosi del kiwi (vedi articolo precedente).


La sala dell'incontro.

Tiberio Rabboni, assessore all'agricoltura della Regione Emilia-Romagna, ha ricordato che la coltivazione dell'actinidia - 4.500 ettari per 75.000 tonnellate, di cui il 75% nella provincia di Ravenna - è una delle attività di punta dell’agricoltura regionale, grazie a una produzione di qualità e una filiera ben organizzata. Al progetto sono affidate le speranze di acquisizione di maggiori strumenti per contrastare più efficacemente la malattia, anche se, purtroppo, è mancato il coinvolgimento di altri enti – e risorse - nazionali.

Alessandra Calzolari, del Servizio fitosanitario della Regione Emilia-Romagna, ha riepilogato le conoscenze attuali sul batterio Pseudomonas siringae pv actinidiae (Psa). Una storia che inizia nel 1984 in Giappone, per poi arrivare in Cina (1990), Corea del Sud (1992), Italia (1992 e 2008), Turchia (2009), Cile, Francia, Nuova Zelanda e Portogallo (tutti nel 2010) e, infine, Australia, Spagna e Svizzera (2011).

In Italia, la diffusione del Psa ha riguardato dapprima la regione Lazio, quindi l’Emilia-Romagna e il Veneto, la Calabria e il Piemonte e, più recentemente, il Friuli Venezia Giulia (2011).

Calzolari ha descritto il ciclo della batteriosi, con i vari sintomi, in corrispondenza delle fasi fisiologiche dell'actinidia. Così, da inizio del "pianto" a prefioritura, si registra la ripresa dell'attività biologica del batterio presente all’interno della pianta e dei cancri. Tra i sintomi, la presenza di essudati batterici in vari punti sugli organi della pianta, necrosi dei bottoni fiorali.



Da inizio fioritura a inizio ingrossamento frutto, partono le nuove infezioni in seguito alla diffusione del batterio per azione della pioggia e del vento. Sintomi: necrosi delle gemme e dei tralci (foto sopra), necrosi dei fiori, maculature fogliari (foto sotto).



Nella fase di ingrossamento frutto, l'innalzamento della temperatura blocca l'attività dl batterio, il quale tuttavia resta vitale. Il segno più evidente delle infezioni primaverili è il disseccamento dei tralci (foto sotto).



Da raccolta frutti a fine caduta foglie, con la ripresa dell'attività del patogeno, si può notare l'avvizzimento dei frutti. Infine, nella fase che va da fine caduta foglie a inizio "pianto", il batterio riduce la sua attività biologica sopravvivendo all’interno delle piante e dei cancri corticali (su tronco, cordoni, tralci nella foto sotto), poco visibili.



La penetrazione nella pianta ospite avviene attraverso aperture naturali come gli stomi, le lenticelle, le strutture fiorali, i peduncoli dei frutti e le ferite di caduta delle foglie, ma anche da "aperture" provocate da eventi meteorologici come gelate, grandine e forti venti e da lesioni causate dagli interventi colturali.

La diffusione a grande distanza sicuramente non avviene tramite i frutti, anche se è bene adottare precauzioni durante la loro movimentazione e lavorazione. Riguardo il ruolo del polline, si sta ancora indagando, mentre l'iniziale responsabilità del materiale di propagazione è stata accertata.

In definitiva, quello che si può e deve fare, sul patogeno, è ridurre e mantenere basso l'inoculo batterico, mentre, dal punto di vista ambientale, occorre proteggere le vie di penetrazione dei batteri.

Loredana Antoniacci, del Servizio fitosanitario della Regione Emilia-Romagna, ha fornito alcune indicazioni tecniche per il contenimento della malattia espresse nelle Linee guida contro la Batteriosi del kiwi, distribuite anche in occasione dell'incontro.

Tra queste, il controllo periodico dell’impianto con ispezioni settimanali nei periodi più favorevoli al patogeno: da raccolta frutti a fine caduta delle foglie e da inizio del "pianto" a prefioritura.

La prima regola resta quella di eliminare le piante o parti di piante infette. Se l'essudato è presente sul tronco la pianta va estirpata, mentre se si trova su tralci o cordoni si deve tagliare al di sotto dell’alterazione visibile. Dove eseguire il taglio?



Si deve asportare uno strato sottile di corteccia e tagliare dove il tessuto sottocorticale non presenta una colorazione rossastra o olivastra, bensì verde.

Tra le altre raccomandazioni, se l'essudato è presente sul cordone, l'asportazione può determinare la capitozzatura o il taglio dell’intero cordone; le piante colpite estirpate e le parti di pianta colpite e tagliate vanno portate fuori dell’impianto e bruciate. Importante è anche la disinfezione degli attrezzi ogni qualvolta si eseguono operazioni di taglio in impianti colpiti.

Azioni proponibili da inizio "pianto" a prefioritura, sono la concimazione - con apporti adeguati di azoto, fosforo e potassio (DPI, nella foto sotto), evitando gli eccessi di azoto e frazionando gli apporti – i diradamenti e la potatura verde (da eseguire in un periodo asciutto).



Da inizio fioritura a inizio ingrossamento frutto, è fondamentale impiegare polline controllato per Psa ed eseguire potatura verde e diradamento frutti in un periodo asciutto.

Da raccolta frutti a fine caduta foglie, consigliabile tagliare subito dopo la raccolta i tralci che hanno fruttificato (pre-potatura) al fine di migliorare l'uniformità di distribuzione dei prodotti fitosanitari. Negli impianti colpiti eliminare i tralci asintomatici.

Da fine caduta foglie a inizio "pianto", è bene potare prima dell’inizio del "pianto" e in condizioni asciutte: potare prima gli impianti colpiti eliminando il materiale di risulta (non va trinciato ma asportato e bruciato) e coprire i tagli con mastice cicatrizzante.

Gli obiettivi di questi interventi, come peraltro di quelli agronomici, mirano a tenere bassa la popolazione batterica, contenere la sua diffusione ed evitare l’entrata del batterio nella pianta.

Cosa impiegare? La risposta per ora è il rame, poiché l'efficacia di altri prodotti non è ancora stata completamente testata. Per i trattamenti in fioritura è stato recentemente registrato Amylo-X (vedi precedente notizia). "Gli interventi agronomici e chimici non sono sufficienti – ha concluso Antoniacci – occorrerà proseguire negli studi per rivedere le tecniche agronomiche, ripensare le forme di allevamento e, importante, selezionare varietà tolleranti".

Giampiero Reggidori, presidente CRPV di Cesena ha ricordato i dettagli del progetto, cofinanziato Regione Emilia-Romagna, OP, privati, banche e fondazioni bancarie, che in due anni (fino a settembre 2013), con un importo di 360.000 euro, si propone di approfondire cinque distinti percorsi.

L'azione 1 riguarda la biologia del batterio e l'azione 2 le tecniche agronomiche capaci di limitare la diffusione e la gravità del cancro batterico. L'azione 3 si occupa della difesa con preparati di sintesi e naturali per un possibile contenimento della batteriosi. L'azione 4 prevede la messa a punto di alcune tecniche vivaistiche e di controllo e conservazione del materiale di moltiplicazione di fonte. L'azione 5, affidata al CSO di Ferrara, valuta le implicazioni economiche e occupazionali derivanti dalla possibile diffusione della malattia.

Nelle conclusioni, Alberto Contessi, responsabile del Servizio fitosanitario della Regione Emilia-Romagna, dopo aver sottolineato la non-fitotossicità del rame, ha osservato come le pratiche agronomiche e gli accorgimenti consigliati non siano banali o scontati, ma importanti per gestire con efficacia la malattia. In attesa di una soluzione, che per ora non esiste, metodiche sicure risultano infatti fondamentali.

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