È appena uscito su Internazionale il reportage "Il ricatto dei supermercati all'agricoltura italiana", firmato da Stefano Liberti, che getta luce su uno dei nodi più critici del comparto ortofrutticolo italiano: il potere contrattuale asimmetrico esercitato dalla grande distribuzione organizzata (GDO) sui fornitori.
Nel suo reportage sulla filiera ortofrutticola italiana, il cuore dell'inchiesta è il ristorno: una quota che i produttori agricoli devono retrocedere alla GDO a fine anno, spesso formalizzata come "sconto in fattura" o "contributo marketing". In alcuni casi arriva al 14% del fatturato annuo, ma in realtà rappresenta un vero pedaggio per restare presenti sugli scaffali.
Ne abbiamo parlato con Gualtiero Roveda, avvocato e osservatore attento delle dinamiche del settore agroalimentare.
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Freshplaza (FP): Partiamo proprio da qui: il "ristorno" è un elemento contrattuale, ma nel reportage viene raccontato come un meccanismo opaco e vessatorio. Che lettura ne dà?
Gualtiero Roveda (GR): È opaco perché strutturalmente sbilanciato. Il ristorno, nella prassi, non è il frutto di una trattativa tra pari: è una condizione imposta. Per il produttore è un costo certo e non negoziabile, mentre per la GDO rappresenta un margine sicuro, indipendente dalle vendite. Il problema è che questo meccanismo genera un trasferimento sistematico di valore dalla base agricola alla distribuzione, aggravando una crisi già profonda.
FP: Secondo ISMEA, solo 7 euro ogni 100 spesi dai consumatori vanno all'agricoltore. I restanti 93 si perdono lungo la filiera. Quanto è sostenibile un modello simile?
GR: È un modello insostenibile. Quando la quota di valore riconosciuta a chi produce scende sotto certe soglie, l'impresa agricola non ha più margini per investire, innovare o semplicemente resistere. Il sistema sopravvive solo se a monte ci sono aiuti pubblici o redditi integrativi familiari. Ma questo non è sviluppo: è sopravvivenza assistita. E soprattutto, non è dignità.
FP: Un'altra parte forte del reportage riguarda le pratiche sleali che, pur vietate in teoria, continuano a essere tollerate nella quotidianità dei rapporti commerciali.
GR: Liberti lo mostra con chiarezza. La normativa italiana ha recepito la direttiva UE contro le pratiche sleali con la legge 198/2021, ma il grosso delle condizioni più dure per i produttori rientra nella "lista grigia": sono pratiche lecite se formalizzate per iscritto. E quindi, paradossalmente, si finisce per certificare volontariamente la propria debolezza contrattuale.
FP: Colpisce anche il caso dell'operatore che ha denunciato un'insegna della GDO all'Antitrust, ha vinto, ma poi è stato escluso di fatto dal mercato.
GR: Il caso racconta bene quanto siano informali e potentissimi i meccanismi di ritorsione nel settore. È anche per questo che i produttori spesso non denunciano: non per disinteresse, ma per paura. Il silenzio è una forma di difesa.
FP: Il reportage chiude con una frase molto forte: "Chiediamo solo di essere trattati come parte della filiera, non come i suoi servi". Che cosa manca, oggi, per trasformare questa richiesta in realtà?
GR: Mancano almeno tre cose: aggregazione per aumentare il potere contrattuale; trasparenza nella formazione del prezzo, per restituire al consumatore la possibilità di scegliere consapevolmente; e infine una vigilanza più efficace, che colpisca davvero chi abusa. Finché il soggetto forte potrà imporre condizioni e scaricare ogni rischio a valle, il settore ortofrutticolo italiano resterà vulnerabile, frammentato e in crisi.
FP: Il reportage di Liberti avrà risonanza anche a livello europeo. Può rappresentare una svolta?
GR: Può essere una scintilla, se sarà seguita da consapevolezza e azione. Ha il merito di dare voce a chi normalmente non parla, e di ricostruire un sistema che, dietro la patina dell'efficienza distributiva, è profondamente ingiusto. La filiera va riequilibrata. Non è solo una questione agricola, è una questione di democrazia economica.