Una escalation di prezzi, quella verificatasi nell'ultima decade, che rimarrà sicuramente nella storia dell'ortofrutta, se non altro per la rarità del doppio fattore riscontrato, ovverosia listini fuori controllo e offerta di volumi comunque molto al di sotto del fabbisogno. Un primo pensiero porterebbe a far sembrare ovvietà il fatto che il salire dei prezzi sia commisurato all'assenza di disponibilità, ma in realtà raramente i due aspetti sono stati così concomitanti e concatenati.
Diventa quindi doveroso ipotizzare che effettivamente il prodotto sia scarseggiato, portando le rese di campo a livelli minimi con tutte le ovvie conseguenze legate alla corsa all'accaparramento da parte degli operatori, la necessità dei produttori comunque di realizzare il minimo indispensabile alla copertura dei costi basici, la necessità sempre dei produttori di ammortizzare le perdite e le distruzioni abbattutesi sui campi per calamità meteo incontrollabili.
Ora, senza ritornare ancora una volta sulle varie motivazioni che hanno portato al rallentamento delle produzioni o al loro quasi completo fermo, vorrei spostare l'attenzione su un dibattito che si è in questi giorni acceso in merito alla necessità o meno di continuare a detenere sui banchi merce con livelli di prezzo folli o, comunque, incomprensibili per il cliente medio, ignaro delle logiche che regolano il mercato in termini di domanda, offerta, mancata offerta...
In poche parole, si sarebbe auspicata una sorta di sciopero dell'acquisto di talune referenze nei casi in cui le stesse raggiungano livelli di prezzo insostenibili e spropositati, adducendo la motivazione che non esiste alcuna obbligatorietà di presenza dei prodotti a scaffale.
In prima battuta confesso che anche il sottoscritto abbia spesso pensato alla possibilità di sospendere prodotti per i quali i listini fossero reputati fuori controllo, come una sorta di contrappasso alla presunta follia del richiedente, ma nella realtà non è stato mai fatto. Certamente sono stati consultati più fornitori, sono state spostate quote di approvvigionamento da destra a sinistra, sono state sospese le richieste reputate più insostenibili, si sono aperti nuovi canali di fornitura, ma sempre con la doverosa speranza di poter presentare i banchi al gran completo di assortimento.
Foto d'archivio
Aggiungo anche con la personale convinzione, e si badi bene personale, non aziendale né commerciale, che il prezzo di vendita dovrebbe essere sempre correttamente proporzionato al prezzo di acquisto, al fine di evitare che il cliente abbia una percezione distorta del valore del bene immesso nel proprio carrello della spesa.
Questo concetto vuole rappresentare la maturata convinzione (sempre esistita, ma forse fino a oggi mai conclamata) che esista una sorta di dovere deontologico del buyer a presentare l'offerta senza ammanchi, come se anche per lui esistesse una sorta di giuramento di Ippocrate, e non me ne voglia per il paragone la professione che più stimo al mondo, teso a dare sempre e comunque la più ampia soddisfazione possibile al frequentatore di supermercati.
Tutto ciò per dire che, se pure esiste un diritto allo sciopero dell'acquisto, lo stesso deve essere esercitato solo ed esclusivamente dal cliente, unico attore della filiera con il potere decisionale di prelevare o meno il prodotto dal banco, di ritenerlo consono alle sue necessità, alle sue aspettative, al suo portafoglio; unico attore che, con il suo comportamento, può incidere in maniera significativa ed netta sui volumi movimentati e movimentabili di una determinata referenza, fino a giustificarne il rallentamento dei ritiri o la procrastinazione degli ordini.
Per concludere, ben venga lo sciopero purché sia diritto dell'utente finale e non una decisione aprioristica limitante ed escludente la stessa possibilità di scelta.
Giancarlo Amitrano, Cedigros