La trasmissione ha messo a tema una serie di contraddizioni a cui ha cercato di dare risposta Emilio Casalini nel suo servizio "Tipico ma non troppo".
Ecco che in virtù di un vuoto normativo, il pistacchio che viene lavorato a "Bronte" non è sempre il pistacchio di "Bronte", rischiando di comprendere pistacchio proveniente da diverse parti del mondo o dell'Italia. Pertanto lavorati o semilavorati possono riportare in etichetta, la dicitura 'prodotto e confezionato a Bronte' oppure il simbolo della Sicilia sulle confezioni di pistacchio tritato di cui non si conosce l'origine, senza incorrere in sanzioni".
Biagio Schilirò (in foto qui sotto), presidente del Consorzio di Tutela del Pistacchio di Bronte DOP dichiara: "Un po' tutti ne approfittano e utilizzano il marchio DOP del nostro pistacchio. Ma il marchio riguarda la materia prima, cioè il prodotto grezzo. Infatti le maggiori, per così dire, sofisticazioni e abusi avvengono sui trasformati". Un escamotage regolare e consentito dalla legge, dunque, che viene usato anche da alcune aziende locali.
Claudio Luca di Bacco, titolare dell'omonima azienda di produzione e trasformazione di pistacchio ai microfoni di Report dichiara: "La parola Bronte la puoi scrivere perché è indicata tra le bandiere come luogo di produzione, quindi è un nome staccato dalla dicitura 'pistacchio' che possa indurre in confusione il consumatore. Non è che la parola 'Bronte' sia illegale".
Valeria Grimaldi di Azienda Agricola Grimaldi dichiara a Freshplaza: "Produco e trasformo solo prodotti certificati Bio e DOP e, tra questi, anche creme spalmabili di pistacchio all'insegna della qualità, strettamente legata al territorio, al rispetto dell'ambiente e della salute. Purtroppo questi scandali accadono sempre più in molti settori, ma chi ci rimette siamo sempre noi piccoli produttori che puntiamo tutto sulla qualità".

"Bene il servizio di Report, anche se lo sanno tutti che di vero pistacchio di Bronte Dop ci sono piccole quantità rispetto alla produzione mondiale. La produzione maggiore avviene infatti in Iran (con 478 mila tonnellate), seguita da USA (196.000) e Turchia (88.000)".

"Io sto facendo a mie spese - prosegue Valeria (in foto qui sotto) - la certificazione di rintracciabilità per garantire le mie produzioni che, nonostante la Dop, non vengono difese dalle contraffazioni. Parliamo di un frutto di altissima qualità, ma con ingenti costi di produzione anche perché cresce tra le rocce laviche, e viene raccolto a mano ogni due anni, tra le cosiddette sciare". (Sciara = Termine locale, usato in Sicilia nella zona etnea per indicare gli accumuli di scorie vulcaniche che si formano sulla superficie o ai lati delle colate laviche, NdR)

Valeria conclude: "Personalmente non posso venderlo a meno di 50 euro al chilo, mentre dalla Turchia o dalla Siria arriva a 18-20 euro. Facendo due rapidi conti, si tratta di meno della metà e questo spiega il fascino dei facili guadagni di chi li acquista a scapito dei piccoli, ma veri produttori dell'Oro Verde dell'Etna... quello autentico!"