Ma i veri nemici del Made in Italy non sono alla frontiera
Tutti conoscono l'incidenza sul sistema socio-economico nazionale dell'agropirateria: un volume d'affari stimato per l'Italia in più di 4 miliardi di euro, mentre nel resto del mondo il falso Made in Italy è quantificato in circa 60 miliardi - rappresentando quasi la metà del fatturato alimentare nazionale. I fenomeni di contraffazione dei prodotti agroalimentari, riconducibili anche al cosiddetto italian sounding, sottraggono all'Italia una produzione di oltre 13 miliardi di euro, pari a circa 5,5 miliardi di valore aggiunto.
Se è vero che i nostri agricoltori sono messi in crisi dall'ingresso sul mercato di materie prime che vengono trasformate in prodotti a denominazione di origine nazionale, è altrettanto vero, come ricorda Federalimentare, che la nostra industria alimentare usa il 70% di materie prime nazionali, ma il rimanente 30% dobbiamo importarlo: in questi casi, quale sarebbe la soluzione?
Va anche detto che il prodotto non tutelato e indifferenziato – sia a livello nazionale che comunitario – è inevitabilmente soggetto al confronto con prodotti provenienti da altri mercati e deve accettare le regole del libero scambio.
Quello che rimane fuori dai riflettori, tuttavia, sono i comportamenti scorretti da parte di certi nostri "furbi" imprenditori che danneggiano l'integrità e l'immagine dei prodotti dello Stivale anche a discapito dell'interesse del consumatore italiano, europeo o globale che sia.
Forse, prima di bloccare il Brennero impedendo la normale circolazione delle merci, bisognerebbe iniziare guardando cosa succede "a casa propria". O, volendo proprio guardare oltre confine (ma i confini esistono ancora dopo il trattato di Schengen?), sarebbe utile analizzare con obiettività quanto da soli stiamo combinando per rovinare un'immagine del Made in Italy sempre più pericolante e che all'estero già soffre di una percezione non sempre positiva e riconducibile al "sistema Italia".
Che dire, per esempio, della pratica di esportare kiwi italiano prima dei termini consentiti per legge, o della commercializzazione all'estero delle uve che nelle ultime settimane erano state danneggiate dal maltempo? O, ancora, delle arance "non proprio rosse" siciliane inviate sui mercati scandinavi in deciso anticipo sui tempi di maturazione naturale del prodotto? Tutti fenomeni spiacevoli, che segnaliamo puntualmente ogni anno senza che accada mai veramente qualcosa, e che mettono a rischio il lavoro di chi, nel rispetto delle regole, sembra destinato a soccombere.
Possiamo creare davvero un sistema Paese che, a dispetto delle contingenze, riesca a dare di sé un'immagine credibile e convincente all'estero? Possiamo, insomma, essere un po' meno folcloristici, ma più trasparenti e consapevoli, quando si costruisce il Made in Italy agroalimentare?