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Prof. Daniele Dalli, Universita' di Pisa

"Le abitudini alimentari cambiano, ma difficilmente vedremo affermarsi una ristorazione "veloce" a base di ortofrutta"

Professore ordinario di Economia e gestione delle imprese presso l'Università di Pisa nonché componente del Consiglio direttivo dell'Accademia italiana di economia aziendale, Daniele Dalli (DD) si occupa di consumi alimentari e, su questo tema, FreshPlaza (FP) lo ha recentemente contattato per un'intervista.

DD - Mi interessa la dimensione etica degli acquisti, ovvero l'utilizzo di criteri etici, morali e ideologici nella scelta dei beni di consumo. In ambito alimentare, questa dimensione è particolarmente rilevante e, soprattutto, in netta crescita in tutto il mondo industrializzato. Mi occupo anche di modelli di business "etici", come è il caso di Eataly, ma stiamo studiando anche altre forme di organizzazione economica: i distretti di economia solidale, i gruppi d'acquisto, ecc.

Su questo tema è possibile leggere l'articolo uscito sul Journal of Business Ethics: Sebastiani, R., Montagnini, F., Dalli, D. (2012): Ethical consumption and new business models in the food industry. Evidence from the Eataly case.

DD - La filiera agro-alimentare è spesso la spina dorsale di questi progetti e si dimostra che i consumatori sono disposti non solo a modificare i propri comportamenti e i propri modelli cognitivi e culturali, ma anche a partecipare attivamente alla costituzione di nuove forme di organizzazione della produzione e distribuzione. In questo campo, l'Italia è un paese all'avanguardia con una rete GAS (Gruppi di acquisto solidale) e iniziative collegate tra le più grandi e attive nel mondo. Si tratta di una realtà che ancora non penetra a fondo in alcuni contesti urbani, ma piano piano potrebbe diventare una vera alternativa, sia per la domanda, sia soprattutto per l'offerta, per emanciparsi dalla distribuzione tradizionale.

FP - Professor Dalli, come sono cambiate le abitudini al consumo alimentare nel corso degli ultimi decenni?

DD - Si sono polarizzate: da un lato, si evidenzia una maggiore selettività verso la qualità e l'autenticità e, dall'altro lato, verso il prezzo e la convenienza in senso generico. Il primo segmento è molto piccolo in termini numerici, ma alto spendente. Il secondo viceversa è più ampio, ma con una spesa pro capite più bassa. Entrambi consumano meno in senso quantitativo su tutto il comparto alimentare, con qualche differenza tra una categoria e l'altra.

FP - Denominazioni di origine, certificazioni, prezzo, marchio, punto vendita: quali caratteristiche qualitative di un prodotto ortofrutticolo il consumatore considera significative e quali sono i suoi criteri di scelta e informazioni attese?

DD - Dipende dal punto precedente: chi è interessato alla qualità e all'autenticità sceglie prodotti, negozi e servizi orientati in questa direzione; analogamente fa chi è interessato alla convenienza. Per i primi, l'acquisto di beni alimentari freschi ha una dimensione costruttiva, consapevole e gratificante. I secondi sono consci di fare scelte dettate da esigenze funzionali ed economiche e le considerano una sorta di penalizzazione. Sto esasperando il concetto ma, tra i due estremi, ci sono molteplici situazioni intermedie.

FP - Come potrebbe il settore ortofrutticolo approfittare delle nuove tendenze in atto?

DD - A mio parere, il tratto comune a entrambi gli scenari, anche se per motivi diversi, è la necessità di accorciare la filiera produttiva e soprattutto distributiva. Il segmento che cerca la qualità e l'autenticità vuole garanzie sulla catena di fornitura, un rapporto più diretto possibile con la produzione e un ruolo meno invasivo e distorsivo per le grandi piattaforme logistiche e distributive. Paradossalmente, anche l'altro segmento trarrebbe beneficio da una filiera più corta se ciò consentisse di ridurre il margine commerciale degli intermediari a vantaggio di un pricing più basso, seppure a svantaggio di una minore efficienza complessiva.

FP - Secondo lei, perché la formula McDonald's funziona così bene?

DD - Perché costa pochissimo. Perché rende il consumo alimentare un'attività meno impegnativa rispetto alla nostra tradizione, trasforma pranzi e cene in "merende" e dà ai consumatori un senso di evasione rispetto alle regole quotidiane. E poi perché crea un pacchetto standardizzato piuttosto efficiente a cui il consumatore si abitua e a cui riconosce una certa legittimità. Infine, sono bravi. Mi riferisco alla campagna che circola in queste settimane: non è il mio modello di riferimento, anzi ne riconosco mille difetti, ma sul piano professionale si tratta di un player di grande qualità imprenditoriale e manageriale.

Va tenuto presente, però, che è indirizzata a un target ben preciso: al secondo dei due segmenti individuati poco sopra. Inoltre, ha una caratterizzazione "global-consumistica" che a molti consumatori basso-spendenti e magari con risorse culturali modeste appare come una forma di emancipazione: per capirsi, per alcuni gruppi di giovani urbanizzati mangiare a un McD è meglio che all'osteria o alla trattoria con le tovaglie a quadretti. Queste ultime sono vecchie, pesanti e impegnative, mentre McD è moderno, giovane e disimpegnato.

FP - Potrebbe funzionare altrettanto bene del fast-food una ristorazione "veloce" incentrata sui prodotti ortofrutticoli?

DD - Non credo proprio: i consumatori sono abituati a "categorizzare" ovvero ad assegnare certe proprietà ai beni di consumo e ai relativi servizi e punti di vendita. Vedono i pacchetti di offerta come delle soluzioni con attributi precisi e distintivi e, in ragione dell'esperienza, riconoscono a questi pacchetti una coerenza di fondo. Entrare sul mercato con una soluzione nuova e inusuale richiede un immane investimento per modificare la struttura cognitiva e culturale dei consumatori. Soprattutto se si vuole incidere sul consumo di massa.



Pensiamo al caso di Farinetti/Eataly: osservando con attenzione, ricorda un ipermercato o una catena di negozi di grande superficie che vende prodotti di altissima qualità. Un paradosso, no? Eppure funziona. Consideriamo però: a) l'investimento economico per una iniziativa del genere; b) l'endorsement ricevuto da Slow Food; c) la dimensione di nicchia (si tratta ancora di pochi punti di vendita). In questi limiti, la soluzione è molto efficace, ma ho la sensazione che sia orientata comunque a un mercato di nicchia o assai circoscritto e, in ogni caso, appartenente al primo dei segmenti individuati all'inizio della nostra chiacchierata.

Per maggiori informazioni:
Prof. Daniele Dalli
Email: [email protected]