
DD - Mi interessa la dimensione etica degli acquisti, ovvero l'utilizzo di criteri etici, morali e ideologici nella scelta dei beni di consumo. In ambito alimentare, questa dimensione è particolarmente rilevante e, soprattutto, in netta crescita in tutto il mondo industrializzato. Mi occupo anche di modelli di business "etici", come è il caso di Eataly, ma stiamo studiando anche altre forme di organizzazione economica: i distretti di economia solidale, i gruppi d'acquisto, ecc.
Su questo tema è possibile leggere l'articolo uscito sul Journal of Business Ethics: Sebastiani, R., Montagnini, F., Dalli, D. (2012): Ethical consumption and new business models in the food industry. Evidence from the Eataly case.
DD - La filiera agro-alimentare è spesso la spina dorsale di questi progetti e si dimostra che i consumatori sono disposti non solo a modificare i propri comportamenti e i propri modelli cognitivi e culturali, ma anche a partecipare attivamente alla costituzione di nuove forme di organizzazione della produzione e distribuzione. In questo campo, l'Italia è un paese all'avanguardia con una rete GAS (Gruppi di acquisto solidale) e iniziative collegate tra le più grandi e attive nel mondo. Si tratta di una realtà che ancora non penetra a fondo in alcuni contesti urbani, ma piano piano potrebbe diventare una vera alternativa, sia per la domanda, sia soprattutto per l'offerta, per emanciparsi dalla distribuzione tradizionale.
FP - Professor Dalli, come sono cambiate le abitudini al consumo alimentare nel corso degli ultimi decenni?
DD - Si sono polarizzate: da un lato, si evidenzia una maggiore selettività verso la qualità e l'autenticità e, dall'altro lato, verso il prezzo e la convenienza in senso generico. Il primo segmento è molto piccolo in termini numerici, ma alto spendente. Il secondo viceversa è più ampio, ma con una spesa pro capite più bassa. Entrambi consumano meno in senso quantitativo su tutto il comparto alimentare, con qualche differenza tra una categoria e l'altra.
FP - Denominazioni di origine, certificazioni, prezzo, marchio, punto vendita: quali caratteristiche qualitative di un prodotto ortofrutticolo il consumatore considera significative e quali sono i suoi criteri di scelta e informazioni attese?
DD - Dipende dal punto precedente: chi è interessato alla qualità e all'autenticità sceglie prodotti, negozi e servizi orientati in questa direzione; analogamente fa chi è interessato alla convenienza. Per i primi, l'acquisto di beni alimentari freschi ha una dimensione costruttiva, consapevole e gratificante. I secondi sono consci di fare scelte dettate da esigenze funzionali ed economiche e le considerano una sorta di penalizzazione. Sto esasperando il concetto ma, tra i due estremi, ci sono molteplici situazioni intermedie.
FP - Come potrebbe il settore ortofrutticolo approfittare delle nuove tendenze in atto?
DD - A mio parere, il tratto comune a entrambi gli scenari, anche se per motivi diversi, è la necessità di accorciare la filiera produttiva e soprattutto distributiva. Il segmento che cerca la qualità e l'autenticità vuole garanzie sulla catena di fornitura, un rapporto più diretto possibile con la produzione e un ruolo meno invasivo e distorsivo per le grandi piattaforme logistiche e distributive. Paradossalmente, anche l'altro segmento trarrebbe beneficio da una filiera più corta se ciò consentisse di ridurre il margine commerciale degli intermediari a vantaggio di un pricing più basso, seppure a svantaggio di una minore efficienza complessiva.
FP - Secondo lei, perché la formula McDonald's funziona così bene?
DD - Perché costa pochissimo. Perché rende il consumo alimentare un'attività meno impegnativa rispetto alla nostra tradizione, trasforma pranzi e cene in "merende" e dà ai consumatori un senso di evasione rispetto alle regole quotidiane. E poi perché crea un pacchetto standardizzato piuttosto efficiente a cui il consumatore si abitua e a cui riconosce una certa legittimità. Infine, sono bravi. Mi riferisco alla campagna che circola in queste settimane: non è il mio modello di riferimento, anzi ne riconosco mille difetti, ma sul piano professionale si tratta di un player di grande qualità imprenditoriale e manageriale.
Va tenuto presente, però, che è indirizzata a un target ben preciso: al secondo dei due segmenti individuati poco sopra. Inoltre, ha una caratterizzazione "global-consumistica" che a molti consumatori basso-spendenti e magari con risorse culturali modeste appare come una forma di emancipazione: per capirsi, per alcuni gruppi di giovani urbanizzati mangiare a un McD è meglio che all'osteria o alla trattoria con le tovaglie a quadretti. Queste ultime sono vecchie, pesanti e impegnative, mentre McD è moderno, giovane e disimpegnato.
FP - Potrebbe funzionare altrettanto bene del fast-food una ristorazione "veloce" incentrata sui prodotti ortofrutticoli?
DD - Non credo proprio: i consumatori sono abituati a "categorizzare" ovvero ad assegnare certe proprietà ai beni di consumo e ai relativi servizi e punti di vendita. Vedono i pacchetti di offerta come delle soluzioni con attributi precisi e distintivi e, in ragione dell'esperienza, riconoscono a questi pacchetti una coerenza di fondo. Entrare sul mercato con una soluzione nuova e inusuale richiede un immane investimento per modificare la struttura cognitiva e culturale dei consumatori. Soprattutto se si vuole incidere sul consumo di massa.

Pensiamo al caso di Farinetti/Eataly: osservando con attenzione, ricorda un ipermercato o una catena di negozi di grande superficie che vende prodotti di altissima qualità. Un paradosso, no? Eppure funziona. Consideriamo però: a) l'investimento economico per una iniziativa del genere; b) l'endorsement ricevuto da Slow Food; c) la dimensione di nicchia (si tratta ancora di pochi punti di vendita). In questi limiti, la soluzione è molto efficace, ma ho la sensazione che sia orientata comunque a un mercato di nicchia o assai circoscritto e, in ogni caso, appartenente al primo dei segmenti individuati all'inizio della nostra chiacchierata.
Per maggiori informazioni:
Prof. Daniele Dalli
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