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Ieri sul tema un convegno in Emilia Romagna

L'export ortofrutticolo alla prova delle barriere fitosanitarie: talvolta una mission impossible

"Certo, la domanda interna è ancora importante, ma è all'estero che l'agroalimentare italiano può esprimere il meglio di sé. Dopo Expo c'è stata una forte richiesta di made in Italy e tutti i tentativi (riusciti o meno) di contraffazione ne sono una prova", spiega Simona Caselli, assessore regionale dell'Emilia Romagna all'Agricoltura".

Tuttavia esportare è più facile a dirsi che a farsi perché per mettere un piede in un paese terzo ci sono sempre tutta una serie di ostacoli; il primo di questi, specie se vuoi spedire fuori dall'Europa, sono le barriere fitosanitarie. Del tema se n'è parlato ieri, 20 aprile 2016, in un incontro sul tema organizzato dalla Regione Emilia Romagna.


Simona Caselli, assessore all'Agricoltura della Regione Emilia Romagna.

Alzate per impedire l'ingresso di malattie, patogeni o insetti potenzialmente dannosi per il paese importatore, costituiscono un grosso e importante strumento di controllo degli scambi, tanto che, denuncia l'assessore Caselli, "molto spesso la tentazione e la prassi che abbiamo visto è che, non potendo imporre dazi all'importazione, allora si alzano delle barriere fitosanitarie, spesso senza fondamento scientifico, o con misure impossibili da rispettare, o talmente costose da scoraggiare l'esportazione".

E cita il caso di pere e mele verso gli Stati Uniti, paese che oltre a esserne un grande consumatore ne è anche un grande produttore. Da alcuni anni l'Italia può esportare negli USA sia pere sia mele, "ma – riprende l'assessore – per esportare pere negli Stati Uniti bisogna effettuare dei trattamenti e dei lavaggi alle volte anche ridicoli, che però alzano talmente tanto i costi da scoraggiare gli esportatori": l'anno scorso, di fatto, nessun container di pere o di mele è partito dall'Italia alla volta degli States.

Stessa cosa è capitata anche con il kiwi verso la Corea del Sud: protocollo fitosanitario siglato nel 2012, ma con termini talmente stringenti che l'anno scorso solo pochi container sono partiti alla volta del paese asiatico.


Stefano Boncompagni, del Servizio Fitosanitario Regionale dell'Emilia Romagna.

"Dalla globalizzazione derivano grandi opportunità, ma anche grandi beghe", chiosa Stefano Boncompagni, del Servizio Fitosanitario Regionale. Va detto che le 'beghe' sono tanto maggiori se vuoi esportare da un paese comunitario a uno extra-UE perché, lo ricorda Simona Rubbi, del CSO – Centro Servizi Ortofrutticoli, "nell'Unione Europea si importa con un approccio permissivo: tutto ciò che non è vietato è consentito. Viceversa i Paesi terzi importano con un approccio restrittivo: tutto ciò che non è consentito è vietato".


Simona Rubbi, del CSO - Centro Servizi Ortofrutticoli.

Ne consegue che riuscire a sbarcare frutta e verdura italiana dalla nave o dall'aereo è spesso il risultato di anni di trattative e di una lotta contro quello che – è stato sottolineato più volte ieri - prende alle volte l'aspetto di un muro di gomma, letteralmente. Vediamone qualche caso, riportato ieri dai partecipanti all'incontro.


Un momento del convegno.

Delle pere e mele (non) esportate negli Stati Uniti abbiamo già parlato, ma pure i kiwi non se la passano tanto meglio perché nelle partite italiane, segnala Franco Finelli (referente per le attività di controllo import-export del Servizio Fitosanitario Regionale), "sono stati effettuati negli ultimi anni alcuni ritrovamenti di insetti e patogeni non imputabili al kiwi; ma ci è stato riferito solo all'ultimo", quasi a un passo dalla crisi e dal rischio di una messa al bando dei prodotti; senza contare poi che un container bloccato nei porti è un costo per chi spedisce e diventa un costo ancora maggiore se quel container viene rispedito indietro, pieno.

Sempre sul kiwi, un problema simile lo si è avuto con la Nuova Zelanda, a causa di un insetto che in Italia non è nocivo né pericoloso e che si controlla facilmente, praticamente una tempesta in un bicchiere. Caso simile a quest'ultimo è capitato con il Sudafrica: nel 2011 bloccarono le importazioni di kiwi italiano perché furono trovati degli acari la cui introduzione era vietata. Si trattava di acari che in Italia non hanno mai dato problemi di sorta: nel 2013 gli scambi sono ripresi e da allora non c'è stato più alcun problema.


Franco Finelli, del Servizio Fitosanitario Regionale dell'Emilia Romagna.

Se la querelle statunitense con il kiwi italiano è imputabile a una segnalazione tardiva dei ritrovamenti nella merce, questo non è certamente l'unico caso di una mancata comunicazione; un problema che non si limita ai soli Stati Uniti, anzi. Di ritrovamenti vietati, respingimenti, blocchi alla dogana, nuove normative, "non veniamo mai avvisati noi direttamente – protesta Sabrina Pintus, praticamente il numero due del Servizio Fitosanitario Nazionale e referente delle attività e della gestione delle barriere fitosanitarie – lo veniamo a sapere dagli esportatori e non ne veniamo mai informati in via ufficiale, come invece dovrebbe essere".


Sabrina Pintus, del Servizio Fitosanitario Nazionale.

Vedi alla voce Taiwan, dove l'Italia esporta da anni i suoi kiwi. L'anno scorso si arrivò all'emergenza. "Taiwan – riprende Boncompagni – aveva cambiato la legislazione sul cold treatement, ma noi (del servizio fitosanitario regionale, così come quello nazionale, ndr) non abbiamo rapporti diretti con Taiwan e così non l'abbiamo saputo. Non ci fu comunicato tempestivamente se non dopo decine e decine di container respinti".


Il pubblico al convegno di ieri sulle barriere fitosanitarie.

Altri casi sono ancora più paradigmatici; li elenca Sabrina Pintu. Giappone: nel 2008 si arriva all'accordo per esportare le arance italiane, ma l'autorizzazione è solo per il Tarocco; per estenderlo anche al Moro e al Sanguinello ci sono voluti 6 anni "pur avendo queste 3 arance gli stessi rischi fitosanitari. (del resto) Il Giappone è uno dei paesi più chiusi al mondo, tanto che gli Stati Uniti hanno presentato e vinto un ricorso al WTO, l'Organizzazione Mondiale per il Commercio, ma da allora nulla è cambiato…", spiega la Pintus.


Un momento del convegno di ieri.

Ancora. Israele: nel 2011 l'Italia presenta il dossier per chiedere di esportare lì il kiwi. "Hanno risposto solo pochi giorni fa"; chiedono informazioni e documenti aggiuntivi. Brasile: da anni hanno messo al bando le susine cino-giapponesi made in Italy. "Nonostante le pressioni dell'ambasciata italiana e le nostre richieste, finora non abbiamo avuto nemmeno un riscontro", sostiene la Pintus.


Alberto Lipparini, Assosementi.

In uno scenario simile, com'è possibile rispondere e/o superare le barriere fitosanitarie all'export di prodotti ortofrutticoli italiani? Se la Pintus denuncia una struttura del Servizio Fitosanitario Nazionale sotto organico e senza fondi adeguati, da tutti quanti, ieri, sia dal settore pubblico siae da quello privato, è emersa la necessità di creare un unico tavolo nazionale pubblico-privato.

"C'è uno scarso coordinamento a livello nazionale", denuncia Alberto Lipparini, di Assosementi, che continua spiegando: "serve un momento istituzionale nazionale, anche per prevenire", nuove barriere fitosanitarie, mentre Finelli cita il 'caso olandese' dove "per l'export hanno funzionari che si occupano di paesi specifici, che seguono letteralmente solo e soltanto questi paesi: seguono questi mercati esattamente come nelle aziende c'è chi segue settori specifici. Dobbiamo rendere il Servizio Fitosanitario Nazionale adeguato ai nuovi scenari".