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Ridurre i costi di produzione e differenziare il prodotto: ecco la ricetta per rilanciare il settore patate

Nel mondo aumentano le superfici coltivate a patate, merito soprattutto della Cina, che su tutti ha registrato negli ultimi anni la crescita maggiore. In controtendenza l'Europa, dove viceversa le superfici sono in calo, pur a fronte di una produzione sostanzialmente costante; in questo quadro l'Italia è ancora di più in controtendenza; è quanto emerso venerdì 19 marzo, in occasione dell'incontro 'Tuber ad Honorem' (cfr. FreshPlaza del 21/03/2016), dai dati presentati da Rino Ghelfi e Alessandro Palmieri, del Dipartimento di Scienze Agrarie dell'Università di Bologna.


Commercializzazione di patate al mercato all'ingrosso di Bologna, il mercato di riferimento per le patate in Italia. (Foto d'archivio)

Sul fronte degli acquisti al dettaglio, gli italiani consumano sempre meno patate (cfr. FreshPlaza del 09/09/2015). Il tubero si conferma così un prodotto che in patria non sembra avere lo stesso successo che invece trova altrove in Europa. La Fao, infatti, registra per l'Italia un consumo medio pro capite sostanzialmente stabile ai 40 kg di patate all'anno, poco sopra la media mondiale; tuttavia la media europea è dell'ordine dei 75 kg procapite di patate consumate all'anno. Ancora di più fanno paesi come la Polonia (dove però il consumo è in calo), l'Irlanda, il Regno Unito, la Romania e i Paesi Bassi.


L'andamento del consumo medio pro capite annuo di patate. Clicca qui per consultare il grafico a dimensioni maggiori. (Fonte grafico: Ghelfi-Palmieri su dati Fao)

Più interessante (non per forza migliore) il discorso sul versante produttivo, dove si nota come negli ultimi 30 anni (ma il dato risulta ancora maggiore se si va più indietro nel tempo) sia calato il numero di aziende produttrici: erano circa 325mila nel 1982, per poi scendere a circa 25mila nel 2010. A fronte di questo, c'è da notare che se molte hanno chiuso i battenti, tante altre si sono o aggregate o sono finite sotto altre aziende, tant'è che la dimensione media aziendale è cresciuta (0,45 ettari/azienda nel 1982, 2,12 ettari/azienda nel 2010).

Nel corso del tempo sono diminuite le superfici italiane dedicate alla pataticoltura, ma qui occorrono dei distinguo. Infatti dal 2000 a oggi a essere calate sono state soprattutto le superfici coltivate a patata comune, mentre quelle coltivate a patate precoci sono sì calate, ma decisamente meno delle altre. Questo è probabilmente il segno che il mondo produttivo si sta orientando verso varietà a ciclo precoce.


L'evoluzione negli anni della coltivazione di patate in Italia, sia in termini di superfici seminate che di volumi di produzione. Clicca qui per consultare il grafico a dimensioni maggiori. (Fonte grafico: Ghelfi-Palmieri su dati Istat)

Dal punto di vista invece delle aree di produzione, è calata quella in Campania, mentre in Emilia Romagna si è ridimensionato il contributo di Bologna, provincia produttrice di patate per antonomasia, che se nel 2010 copriva più della metà (55%) delle patate emiliano-romagnole, l'anno scorso è arrivata a coprire il 43% della produzione regionale.

Ma che destino hanno le patate in commercio in Italia? Due su tre vanno al consumo fresco, mentre quote pressoché uguali (11%) vengono destinate alla trasformazione, all'export e alla produzione di sementi. Il dato dell'export tuttavia non deve ingannare: infatti l'Italia è notoriamente un paese importatore e, nel corso dei 365 giorni dell'anno 1 patata su 4 risulta d'importazione, soprattutto da Francia (43,3% delle patate d'importazione), Paesi Bassi (18,8%), Egitto (15,2%) e Germania (14%). Il grosso delle importazioni, in flessione dal 2010 a eccezione del picco del 2013, riguarda le patate comuni, mentre la bilancia commerciale import/export per le precoci è praticamente a saldo zero: tante se ne importano, tante se ne esportano.


L'andamento dell'import/export italiano di patate, sia in termini di valore sia di volume. Clicca qui per consultare il grafico a dimensioni maggiori. (Fonte grafico: Ghelfi-Palmieri su dati Eurostat)

In tutto questo, però, la vera nota dolente non viene tanto dai cali produttivi o dalla flessione dei consumi, quanto piuttosto dall'elemento che da più parti viene additato come uno dei principali freni alla competitività agroalimentare italiana, e non solo nelle patate: il costo della produzione.

Dai dati presentati venerdì emerge infatti chiaramente come produrre patate in Italia costi ben più che altrove, soprattutto a causa dei costi della semente, del carburante e dell'affitto dei terreni. In provincia di Bologna produrre una tonnellata di patate costa tra i 175 euro e i 200, il massimo in Europa. Nel Regno Unito, secondo in classifica dopo il nostro paese, produrre la stessa quantità di patate costa 125 euro, al massimo. In Francia oscilliamo, a seconda della zona di produzione, da meno di 120 euro/tonnellata a meno di 100.

In definitiva, produrre patate in Italia costa dai 6 ai 10 eurocent al chilo in più rispetto ai grandi produttori europei, mentre i costi industriali sono più alti anche del 20/30%. Il risultato è che ci troviamo a importare patate a un prezzo medio di 26 eurcent al chilo e a esportarle a 44 eurocent/kg. Insomma, come riportano Ghelfi e Palmieri nella loro presentazione, è impensabile per la patata made in Italy competere (ed essere remunerativa per i produttori) con un prodotto indifferenziato. A tal riguardo, la strada necessaria è quella della differenziazione e dell'innovazione di prodotto, sia nel fresco sia nel prodotto da industria.

Nella proposta degli universitari la differenziazione del prodotto la si può ottenere valorizzando e puntando sugli aspetti salutistici, com'è stato fatto per esempio con Selenella, la patata arricchita con selenio, e da Iodì, patata viceversa arricchita di iodio, agganciandosi così alla domanda di prodotti salutari, che non conosce crisi; puntando su utilizzi diversificati; su varietà particolari; sulla trasparenza in etichetta; sulla sostenibilità della coltivazione; o infine puntando sulla tipicità territoriale, potendo contare che nel Belpaese cono 6 le patate a certificazione Dop o Igp, mentre il Miipaf ha 53 patate diverse registrate come prodotti agroalimentari tradizionali. In Europa nessuno può vantare un numero così elevato di patate a denominazione.


La catena del valore per le patate da consumo fresco non marchiate dal produttore. (Fonte grafico: Ghelfi-Palmieri)

Tuttavia esiste anche un'altra strada per ridare redditività al comparto, ed è quella di limare sui costi di produzione, attraverso l'aggregazione per abbattere quella che è la voce maggiore: il condizionamento in stoccaggio, seguito dal costo della semente. Ghelfi e Palmieri calcolano che basterebbe abbassare i costi di produzione di 5 eurocent al chilo (che fanno tra i 1.500 e i 2.000 euro/ettaro) per garantire la remuneratività della coltura.