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Di Rossella Gigli

"La propaganda sul cibo a "km zero" si rivela un boomerang per le produzioni italiane"

Per anni i consumatori italiani ed europei sono stati bombardati dal messaggio del "km zero", cioè di un approvvigionamento di cibo organizzato in modo da essere il più possibile vicino alla fonte di produzione. Se in Italia tale tendenza si è tradotta nella formula dei mercatini degli agricoltori, che non interferiscono più di tanto sul commercio agroalimentare in generale, in altri paesi europei il concetto delle forniture locali e "localistiche" sta invece diventando un vero e proprio business, strutturato e organizzato, promosso fin sugli scaffali della GDO.

Paesi che pensavamo dipendenti a vita dalle nostre esportazioni agricole e ortofrutticole - vedi Gran Bretagna o Germania - si rivelano perfettamente in grado di tradurre in realtà il "km zero" su vasta scala: vedasi come caso emblematico il mega-complesso serricolo Thanet Earth (leggi qui). Ma anche gli esempi tedeschi riportati negli articoli odierni sulla produzione di peperoni in serra (leggi qui) o sulla promozione delle patate biologiche locali (leggi qui), indicano che all'estero la "filiera corta" sta diventando modello d'impresa e di sviluppo, con ricadute negative proprio per noi.

L'Italia, infatti, primo produttore di frutta e verdura dell'Unione Europea, vedrà progressivamente ridursi le opportunità di vendita sui suoi mercati tradizionali e, paradosso dei paradossi, dovrà - per continuare a sopravvivere - ampliare enormemente il proprio raggio d'azione verso nuovi e più lontani mercati, con buona pace del "km zero".