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Di Rossella Gigli

Miseri prezzi alla produzione si combattono solo con la creazione di Comitati di Prodotto a livello nazionale

Lo scollamento tra prezzo alla produzione e prezzo al consumo è da sempre un argomento "caldo" per il settore ortofrutticolo. Nella pur giusta e comprensibile frustrazione che un'inadeguata remunerazione del lavoro agricolo comporta, rischiano però di emergere ed attecchire atteggiamenti del tutto controproducenti.

Puntare - come fanno certe associazioni di categoria - l'indice accusatorio contro la merce di importazione e ribadire alla nausea il concetto che si debba dare preferenza ai "prodotti di provenienza locale", come se questa fosse la soluzione ad ogni distorsione della filiera, porta a paradossi tali per cui perfino la merce italiana, ma di origine regionale diversa da quella "locale", viene vista come una potenziale minaccia. Basta leggere l'articolo pubblicato oggi sulla crisi della carota ferrarese (vedi), per rendersi conto che da qui alla lotta fratricida poco ci manca.

Se invece si allargano gli orizzonti a quanto avviene al di fuori dei nostri confini nazionali, ci si rende conto che, ovunque nel mondo, le principali produzioni ortofrutticole di un paese trovano il loro potente baluardo nei Comitati nazionali (o pluri-regionali) di Prodotto.

Solo negli USA esistono associazioni di categoria mono-prodotto per ciliegie, mele, patate, pere, mirtilli e chi più ne ha più ne metta: ogni singolo comparto produttivo è infatti soggetto a particolari esigenze non accomunabili ad altri e ha dunque bisogno di risposte e interventi mirati, sia di carattere organizzativo che promozionale e commerciale.

La prima preziosa attività che un Comitato di Prodotto è chiamato a svolgere è quella della pianificazione delle produzioni in base all'effettiva richiesta di prodotto da parte del mercato. Inutile piangere per quotazioni da fame a posteriori: le semine e le coltivazioni vanno programmate prima, in base a dati certi o almeno quanto più possibile approssimati alla realtà.

Da questo punto di vista, purtroppo, il nostro Paese sembra ancora fermo all'epoca pre-informatica. Non esiste una raccolta sistematica dei dati dalla quale partire per elaborare delle proiezioni, non c'è una gestione centralizzata delle stime produttive, e se pure esiste parzialmente, manca una capillare ed adeguata comunicazione e divulgazione delle informazioni. Mi domando quanti produttori italiani vengano messi nelle effettive condizioni di programmare le semine, per evitare eventuali fenomeni di sovrapproduzione.

Seconda fondamentale funzione di un Comitato di Prodotto è quella di lavorare all'apertura di nuovi mercati, se non al consolidamento di quelli attuali. Altro che investire tutto sulla vendita "locale", appunto: la conquista di una dimensione sempre più internazionale è oggi imprescindibile per la sopravvivenza.

In tutti gli altri paesi, poi, i Comitati di Prodotto si interessano di ogni altra attività connessa al benessere dello specifico segmento che sono chiamati a tutelare: dalla promozione, agli interventi di semplificazione burocratica, dalle pressioni sui gruppi decisionali, alla comunicazione rivolta ai consumatori.

In prospettiva, stando in Europa, si potrebbe pensare addirittura alla formazione di Comitati di Prodotto transnazionali, seguendo in questo l'esempio dei produttori di patate dell'Europa Nord-Occidentale (NEPG).

In sintesi, per difendere al giorno d'oggi il proprio "orticello", quest'ultimo deve rappresentare almeno l'80-90 per cento di una determinata produzione a livello nazionale, se non a livello europeo. Altro che orticello, insomma! D'altro canto, questa è l'unica forma di "campanilismo" che può funzionare, perché è l'unica che un comparto produttivo possa permettersi, se non intende estinguersi.

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