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A cura di Rossella Gigli

Contro lo sfruttamento del lavoro nei campi serve un'assunzione di responsabilita' da parte di tutta la filiera

L'articolo 1 della nostra Costituzione recita: "L'Italia è una Repubblica democratica, fondata sul lavoro". Il lavoro è infatti il vero collante civile e sociale di un Paese: oltre a nobilitare l'uomo, che, se si guadagna onestamente la pagnotta, non solo non andrà mai a rubare, ma acquisterà confidenza nelle proprie capacità e crescerà come cittadino attivo, il lavoro contribuisce anche al benessere dell'intera collettività. Per questo il lavoro va correttamente retribuito, tutelato, protetto e rispettato, in tutte le sue forme.

I recenti fatti di cronaca, con la rivolta dei lavoratori immigrati a Rosarno, in Calabria, testimonia invece quanto, anche nel settore agricolo, sia ancora diffusa l'odiosa pratica dello sfruttamento della manodopera. Quella stessa schiavitù, per l'abolizione della quale sono stati necessari secoli di lotte e di civilizzazione, ce la ritroviamo in casa nostra - e non soltanto da oggi - spesso coperta sotto una coltre di silenzio, di ipocrisia e di omertà.

Dobbiamo invece avere il coraggio di affermare con forza che chiunque sfrutta il lavoro diventa automaticamente un traditore della Repubblica, cioè del nostro Paese, ponendosi come pericoloso sovversivo al di fuori dei confini del consorzio civile e minacciando con pratiche criminali il benessere di tutti noi. E' dunque urgente che la filiera agricola nel suo complesso reagisca compatta e decisa contro simili degenerazioni, attraverso una netta e chiara assunzione di responsabilità.

Tutti sono coinvolti: produttori, responsabili degli acquisti e consumatori finali. E' tempo di voltare pagina. E' giunta l'ora che gli imprenditori agricoli vigilino con maggiore attenzione sul proprio territorio di appartenenza, denunciando immediatamente ogni fenomeno di sfruttamento criminale del lavoro da parte di terzi.

E' arrivato il momento che i responsabili acquisti di mercati all'ingrosso, supermercati e industrie di trasformazione ridefiniscano la propria scala di priorità, rinunciando ad una logica di mera ottimizzazione quantitativa dei profitti, per porre invece al centro dell'attenzione la rispondenza di tutti i fornitori a requisiti di specchiata onestà e di comprovato rispetto nei confronti del lavoro e dell'ambiente.

Riteniamo infatti che il consumatore italiano sia ormai maturo, come accade in altri paesi europei, per scelte più ragionate di acquisto, mosse da principi e valori etici, prima ancora che dal semplice risparmio.

Immettere prepotentemente nel sistema commerciale agroalimentare il concetto e il criterio di responsabilità civile e sociale delle imprese si risolverebbe in un enorme guadagno per tutti: il merito emergerebbe, le pratiche illegali verrebbero marginalizzate e sconfitte; il consumatore, se adeguatamente informato, premierebbe le imprese sane e si sentirebbe coinvolto come parte attiva in un processo di miglioramento della comunità; infine, il prezzo diventerebbe un elemento trascurabile, in confronto con il superiore valore che una scelta etica d'acquisto comporta.

Solo così, acquistare prodotti agroalimentari italiani farebbe la differenza con l'importazione di merci da paesi nei quali i diritti umani vengono calpestati, perché l'italianità diventerebbe sinonimo di rispetto, di una filiera senza ombre, attenta alle conseguenze delle proprie scelte, selettiva, meritocratica, esemplare. Un valore enorme, spendibile in tutto il mondo, di cui andare fieri e orgogliosi. La posta in gioco è troppo importante per non provarci nemmeno.