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"Passare dal "km zero" al "km equo"

"Il mantra delle "food miles" potrebbe trasformarsi in una catastrofe per la comunita' internazionale"

La preoccupazione dei consumatori delle nazioni occidentali in merito alle tematiche connesse al cambiamento climatico può fare più male che bene se prevarrà la preferenza per il cibo di produzione locale, con un conseguente taglio della domanda per beni alimentari prodotti in nazioni in via di sviluppo. Questa l'allerta contenuta in un nuovo libro ("Fair Miles: Recharting the food miles map") a cura di Oxfam e dell'IIED, l'Istituto Internazionale per l'Ambiente e lo Sviluppo.

Gli autori sostengono che il cibo prodotto localmente in realtà provoca maggiori emissioni di gas serra nell'atmosfera e che la propaganda miope delle "food miles", cioè della misurazione della "bontà" di un cibo solo in base alle miglia che percorre per giungere dal produttore al consumatore, potrebbe mettere a rischio la qualità della vita nelle comunità agricole delle nazioni più povere, se la gente dei paesi ricchi smetterà di acquistare i loro prodotti.

Il volume è stato lanciato lo scorso 11 dicembre 2009, in occasione della conferenza internazionale sul clima di Copenhagen e vuole fornire una risposta critica e alternativa al reiterato appello al pubblico di "mangiare locale" per aiutare a rallentare il cambiamento climatico in atto. Senonché, il "mantra" del "chilometro zero" non racconta tutta la storia.

"I cambiamenti climatici colpiranno prima, più duramente e più rapidamente proprio le aree rurali più povere dei paesi in via di sviluppo - sottolinea James MacGregor dell'IIED - Un commercio ad alto valore aggiunto con queste nazioni è dunque un elemento essenziale per la costituzione di economie rurali più attrezzate e più capaci di resistere ai cambiamenti del clima. Il commercio ortofrutticolo costituisce una parte di questa diversa soluzione globale alle sfide che ci attendono in futuro".

Il libro dimostra che, perfino nel caso in cui il cibo viaggia per lunghe distanze via aerea, l'emissione complessiva di gas serra risulta inferiore a quella prodotta dal "cibo locale", a causa di altre fonti di emissioni, che prescindono dalla sola componente "trasporto". Studi scientifici mostrano infatti che, nella filiera americana e britannica, il trasporto pesa soltanto per il 10% delle emissioni totali di gas serra, mentre tutto il resto dipende dai sistemi di produzione, trasformazione, distribuzione e stoccaggio.

In sintesi, frutta e verdura coltivata sotto il sole in Africa e trasportata via aerea in Europa può risultare ben meno dannosa per l'ecosistema della stessa frutta o verdura coltivata in serra e trasportata via treno o via nave nei paesi occidentali.

"Focalizzare l'attenzione dei consumatori esclusivamente sul concetto di "food miles" significa ignorare ben altre dinamiche di ordine sociale e ambientale, strettamente connesse al modo in cui i consumatori decidono di fare acquisti - prosegue MacGregor - Oltre un milione di persone dell'Africa rurale dipendono, per i propri mezzi di sostentamento, dall'importazione di ortofrutta da parte della Gran Bretagna. E' dunque urgente costruire un nuovo parametro di riferimento, che superi l'ottica riduttiva delle "food miles". Bisogna cominciare a pensare in termini di "fair miles", passando cioè dal "km zero" al "km equo" e riconoscendo che nelle scelte sulla provenienza del cibo sono coinvolti anche aspetti sociali ed etici".

"La gente che pensa di risolvere i problemi climatici del pianeta evitando di acquistare cibo che ha viaggiato per lunghe distanze, in realtà rischia di affamare milioni di persone, negando loro il reddito di cui necessitano per la casa, l'alimentazione, la sanità e l'educazione dei figli e generando in definitiva nuove masse di disperati in fuga dalle proprie terre. Se proprio si vuole essere climaticamente responsabili, non sarebbe meglio andare al supermercato a piedi o in bicicletta?", aggiunge James MacGregor.

Il libro argomenta che il contributo delle comunità agricole al riscaldamento globale è del tutto risibile e che dunque non si comprende il motivo per il quale si dovrebbe penalizzare proprio questa fascia di popolazione, quando le vere fonti di inquinamento si trovano in ben altri settori e in ben altri comportamenti, tipici dei paesi ricchi e industrializzati.

"Tanto per fare un esempio - sottolineano gli autori del volume - le emissioni medie di anidride carbonica di un cittadino inglese sono 35 volte superiori rispetto a quelle di un cittadino del Kenya. E' del tutto ingiusto penalizzare queste comunità a bassa emissione e limitare il loro diritto allo sviluppo, rifiutandosi di acquistare il cibo che producono e vendono. Molto di più possono fare i consumatori occidentali per il bene del clima, limitando il loro proprio impatto ambientale: usando meno l'automobile, per esempio, o limitando gli sprechi energetici".

Scarica qui il libro (in lingua inglese) - Fair Miles: Recharting the food miles map