La facile scorciatoia della propaganda allontana l'adozione di misure serie a sostegno dell'agricoltura
L'introduzione di simili etichette sarebbe anche auspicabile - ed è una misura relativamente semplice da adottare - senonché è tutta l'impostazione concettuale dell'iniziativa che lascia perplessi. La filosofia di fondo, come chiaramente espresso dal manifesto programmatico della Coldiretti, è quella di costituire "una filiera agricola tutta italiana", sbarrando la strada a - testuali parole degli organizzatori - "i clandestini alimentari".
I promotori dichiarano infatti, con veemente indignazione, che: "Il problema principale è che le produzioni italiane si trovano a dover concorrere con prodotti d’importazione di qualità inferiore e di provenienza incerta, che sugli scaffali di vendita non sono più distinguibili dai prodotti nazionali."
Ora, un conto è voler introdurre maggiore trasparenza su un mercato di sua natura competitivo, precisando l'origine di ogni prodotto, altra cosa è far passare il messaggio che la merce estera non abbia il diritto di competere con quella italiana perché "di qualità inferiore".
Chi ha infatti valutato questa presunta inferiorità, se la premessa di tutto il ragionamento è che è praticamente impossibile distinguere la merce d'importazione da quella italiana? Se essa fosse stata facilmente individuabile - e quindi analizzabile sotto il profilo qualitativo - non si chiederebbe ora a gran voce di indicarne obbligatoriamente l'origine in etichetta.
La "ratio" sottostante al movimento è dunque contraddittoria, in quanto fondata su argomenti palesemente propagandistici, semplicistici, nonché eccessivi nei toni e nei modi. Si è portati a chiedersi, del resto, quanta rilevanza possa avere l'introduzione di un'etichetta, per il rilancio della competitività di un intero settore produttivo.
Il nostro Paese sembra aver smarrito la consapevolezza che le cose si cambiano con laboriosità, impegno, sforzo quotidiano, approfondendo i problemi invece di fermarsi alla loro evanescente superficie. Bisognerebbe gettare le basi di un'azione programmatica di ampio respiro, con politiche mirate, stanziamento di fondi adeguati, investimenti su formazione, ricerca e innovazione. Si dovrebbe puntare ad allacciare rapporti di collaborazione con altri settori produttivi o con altri paesi, impiegando doti e capacità diplomatiche e di mediazione. Invece no, troppo faticoso: meglio alzare un gran polverone e cavalcare temi morti e sepolti, come il protezionismo e l'autarchia.
Il protezionismo - avemmo modo già di parlarne sulle pagine di FreshPlaza - è una tentazione, certo, ma una tentazione insana per un paese come l'Italia, che ha nelle esportazioni agroalimentari uno dei gangli vitali della sua economia (leggi articolo) e che necessita di sempre maggiori e più solide alleanze con i paesi esteri, non certo di alzare le barricate.
Quello che la nostra classe dirigente non ha ben compreso è che il dramma di fondo di queste iniziative propagandistiche è che, se costituiscono una facile scorciatoia per ottenere mobilitazione e consensi immediati, nel lungo termine allontanano l'adozione di misure realmente efficaci e strutturali per il rilancio di un settore produttivo essenziale come quello dell'agricoltura.