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A colloquio con l'esperto Gualtiero Roveda

Vendere come italiani prodotti esteri? Ecco tutti i rischi e le sanzioni

Un articolo pubblicato l'11 maggio scorso da FreshPlaza (clicca qui per il testo completo) ha riportato le osservazioni dell'operatore greco Theodorou Kostas della Theodorou Fruits, il quale lamentava il fatto che gli esportatori greci non stessero sfruttando appieno le opportunità, offerte dal proprio Paese, di confezionamento e distribuzione di prodotti di alta qualità, come ciliegie e kiwi, preferendo invece vendere i volumi maggiori direttamente ad aziende agricole in Italia e Romania.

Con la conseguenza, a suo dire ovviamente, che i prodotti greci finiscono sul mercato europeo come italiani o rumeni. La questione sollevata pare grave e non riguarda solo aspetti di strategia commerciale o di marketing, ma di violazioni di specifiche norme. Chiediamo chiarimenti in materia all'avvocato Gualtiero Roveda, consulente di Fruitimprese.

L'avvocato Roveda

"In base alle norme dell'Unione Europea, il paese di origine dei prodotti ortofrutticoli deve essere indicato. Nello specifico, il Regolamento UE n. 543/2011 stabilisce tale obbligo per garantire la trasparenza e la tracciabilità dei prodotti. L'indicazione deve essere chiara e leggibile e deve essere fornita in modo tale da evitare qualsiasi tipo di inganno per i consumatori. Il Regolamento stabilisce anche le procedure per il controllo e la verifica dell'indicazione del paese di origine dei prodotti ortofrutticoli, al fine di prevenire la frode in commercio", spiega Roveda.

Sotto quest'ultimo aspetto, nel nostro Paese vi sono anche profili penali di responsabilità se viene venduto un prodotto greco come italiano. L'operatore che consegna all'acquirente un prodotto con un'origine diversa da quella dichiarata o pattuita, commette il reato di frode nell'esercizio del commercio, previsto e punito dall'articolo 515 del Codice penale.

Ma dal punto di vista giuridico, non pare essere una truffa. Precisa Roveda: "Il confine tra il reato di frode in commercio e quello più grave di 'truffa', previsto dall'articolo 640 del Codice penale, è invero piuttosto labile, e la giurisprudenza stessa ha fornito soluzioni interpretative contraddittorie. La posizione più ragionevole sembra essere quella che qualifica il reato come 'truffa' piuttosto che "frode in commercio" quando l'acquirente viene raggirato con artifici o inganni per concludere un contratto che altrimenti non avrebbe concluso, subendo anche un danno patrimoniale".

Ai fini della commissione del reato è effettivamente sufficiente detenere presso il magazzino o il punto vendita prodotti difformi per origine da quanto indicato in etichetta.

"E' possibile in questo caso configurare il tentativo di frode. Il reato si consuma però nel momento e nel luogo in cui il venditore consegna la merce. L'elemento soggettivo del reato è rappresentato dal dolo generico. Non è quindi necessario dimostrare particolari modalità ingannevoli o l'intento di trarre profitto: è sufficiente che il venditore abbia la consapevolezza e la volontà di consegnare un prodotto diverso da quello dichiarato. La prova del dolo può essere fornita da elementi quali la condotta dell'agente, le dichiarazioni, i documenti, le testimonianze, ecc. Tuttavia, le presunzioni non sono ammesse".

Se il prezzo è congruo per le caratteristiche e le qualità del prodotto venduto, sussiste ugualmente il reato: potrà essere, al limite, una circostanza che il giudice valuterà per stabilire la misura della pena.
Il reato di "frode in commercio" è punito con la reclusione fino a due anni o con la multa fino a 2.065 euro. In ragione dell'articolo 517-bis c.p., la pena è aumentata nella misura massima di un terzo se i fatti hanno per oggetto alimenti o bevande con denominazione di origine o geografica o le cui specificità sono protette dalle norme vigenti. La condanna comporta anche la pubblicazione della sentenza, in forza di quanto stabilito dall'art. 518 c.p.

"Il reato in esame rientra tra i "reati presupposto" previsti dal D.lgs. n. 231/2001. A ciò consegue che la commissione del reato di "frode in commercio" comporta, oltre alla penale, personale, responsabilità di coloro che hanno commesso il reato, anche una responsabilità amministrativa della società, accertata dal giudice penale. La società potrà così essere condannata a una sanzione pecuniaria ricompresa in un range che va da un minimo di euro 25.800 a un massimo di euro 1.549.000" conclude Roveda.


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