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Resoconto di un convegno organizzato dall'OP Etruria Royal Fruit

Tra serre, idroponica, droni e sensori, il futuro delle orticole e' dietro l'angolo

Qual è il futuro prossimo, già dietro l'angolo, delle colture orticole specializzate? Se lo sono chiesti presso la toscana Etruria Royal Fruit, un'OP (Organizzazione di Produttori) nata appena un paio di anni fa e che oggi conta 14 soci, organizzando ieri a Grosseto un convegno sul tema. A intervenire, esperti del settore per affrontare temi come le colture protette, il fuori suolo, l'uso dei droni, l'uso dei big data e la lotta ai parassiti tellurici mediante nuove tecniche.


Un momento del convegno di ieri a Grosseto.

Parlando di orticole specializzate, l'esordio non poteva non venire dalle produzioni sotto serra, in un panorama mondiale che sta cambiando molto. "Dal 2000 in poi stiamo assistendo a un notevole aumento delle superfici coperte in Cina (da dati forniti nel convegno è emerso che nel 2011 i gigante asiatico aveva 2,76 milioni di ettari di serre). Ora pure la Russia ci sta investendo molto, merito o colpa del vicendevole embargo Russia-UE", spiega Alberto Paradossi, del dipartimento di Scienze Agrarie dell'Università di Pisa.

E se in Europa la parte del leone la fanno Spagna (52mila ettari coperti), Italia, (con quasi 28mila ettari a ortaggi per lo più concentrati in Sicilia, dove il clima in inverno permette colture sotto serra senza riscaldamento), "da tenere sott'occhio c'è la Polonia", continua Paradossi; il paese dell'Est Europa infatti è, per superfici coperte, il quinto nel ranking europeo, con 7.560 ettari coperti per produrre esclusivamente pomodori e fragole.


Alberto Paradossi, dell'Università di Pisa, durante il suo intervento a Grosseto.

Ma al netto della remuneratività delle produzioni sotto serra ("raramente una ricerca dice che un coltura sotto serra non è remunerativa", sostiene il professore pisano), a fronte di investimenti variabili a secondo di quanto sia avanzata la serra, e del prodotto finale ("garantisce un prodotto standardizzato", dice Paradossi) il nodo maggiore è quello dei consumatori. In un'epoca in cui il consumatore finale è sempre più attento anche ai metodi di produzione di quello che mangia, come percepisce i prodotti coltivati sotto serra?

"Secondo un'indagine condotta in Francia, paese per molti versi simile all'Italia, - riprende Paradossi – la maggior parte dei consumatori ritiene ancora che i prodotti coltivati in serra siano meno buoni e meno salutari di quelli in campo aperto". Dalla ricerca è emerso che il 62% degli intervistati, quelli che sono stati definiti tradizionalisti, vedono con sospetto i prodotti di serra, visti come artificiali, non-naturali, pieni di acqua e senza sapore; anche un altro 21% del campione (gli oculati) è sospettoso nei confronti delle colture protette, ma meno dei tradizionalisti. Infine il restante 17% (i responsabili) non vedono questi prodotti con sospetto e basano le loro scelte d'acquisto sulla sostenibilità del processo produttivo e sulle informazioni circa il prodotto. Ed è proprio su quest'ultimo punto che la strada è ancora lunga: "mancano informazioni al consumatore sulla produzione sotto serra – spiega il docente dell'università pisana – anche a Expo c'erano messaggi un po' fuorvianti sulla IV gamma e sulle colture protette, messaggi che consigliavano di prodursi gli ortaggi da sé, sul balcone di casa...".


Un momento del convegno di ieri. Paradossi analizza i costi di produzione del fuori suolo in confronto a quelli delle colture in campo.

Per quanto marginale, sui 150mila ettari di serre nel Vecchio continente (l'eccezione sono i Paesi Bassi dove – in base ai dati forniti ieri a Grosseto – è in regime di fuori suolo più del 90% degli oltre 10mila ettari di serre) la produzione in fuori suolo sta suscitando un crescente interesse, tant'è che "i paesi del Nord Europa stanno spingendo molto perché nella nuova OCM-Organizzazione Comune di Mercato anche la produzione idroponica possa essere certificata con il riconoscimento del marchio biologico, come avviene negli Stati Uniti", spiega Paradossi. Oggi, in Europa, è espressamente vietato coltivare prodotti bio in fuori suolo.

Tra i vari sistemi di produzione in fuori suolo, ieri ne è stato presentato uno in particolare: Ngs, acronimo per New Growing System, un sistema che "sebbene sia in giro da più di 20 anni non è mai stato valutato sperimentalmente al di fuori della sua zona d'origine, Almeria, in Spagna", spiega Silvana Nicola, professoressa dell'Università di Torino, che sta testando questo sistema per valutarne pro e contro. Il sistema è in breve un'evoluzione dei più tradizionali sistemi idroponici (Nft) che prevedono il passaggio dell'acqua con i nutrienti all'interno di canaline da cui le radici delle piante "pescano" (cfr. FreshPlaza del 23/06/2015).


La Prof.ssa Silvana Nicola dell'Università di Torino.

Grazie a più strati di bande flessibili una sopra all'altra, l'Ngs ha una fertirrigazione intermittente, con diversi vantaggi, tra cui si evita l'eccessivo sviluppo radicale delle piante in testa alle bande flessibili e relativa ostruzione del condotto e ipossia delle piante che si può registrare nell'Nft. All'Università di Torino studiano il sistema da un anno e i risultati, spiega la docente, sono incoraggianti: "il drenato risultava essere il 50% della soluzione immessa, che è un dato buono e, come avviene anche nei sistemi floating system che abbiamo saggiato, abbiamo rilevato una bassissima concentrazione microbica alla raccolta, minore anche di quella in uscita dalla lavorazione per la IV gamma, un dato spendibile in fase di commercializzazione. Dove non ci sono alternative, perché ad esempio il terreno è desertico, può essere usato anche all'aperto, tant'è che è nato nelle aree desertiche della Spagna dove giravano gli spaghetti western".


Il pubblico al convegno organizzato dall'OP Etruria Royal Fruit.

Dalla terra al cielo, perché archiviata la parte relativa a serre e affini il convegno grossetano ha toccato anche il tema dei droni (sistemi a pilotaggio remoto) e del loro utilizzo in agricoltura, siano essi ad ala fissa o multirotore, assimilabili a qualcosa di simile rispettivamente agli aerei e agli elicotteri. I primi sono usati "soprattutto negli Stati Uniti, dove le estensioni degli appezzamenti sono molto grandi, perché permettono di coprire grosse distanze in poco tempo. Il secondo tipo invece ha vantaggi in aree frammentate, può fermarsi in aria e può seguire pattern (leggasi rotte, ndr) più complesse", spiega Giuliana Profeti, della Pitom, società specializzata appunto nello sviluppo e nell'uso di droni.

Con i droni in campo, continua la Profeti, "è possibile misurare lo stress idrico delle piante, lo stress da nutrienti, così come si possono riconoscere le infestanti. Tutto sta nella calibrazione dei sensori e nel sapere cosa si sta cercando". Il sistema tuttavia presenta dei limiti; primo fra tutti i costi, tra costo del drone, costo dei sensori e manodopera (chi manovra il drone deve essere accreditato all'Enac, l'ente nazionale dell'aviazione civile), tanto da sconsigliarne l'acquisto a livello di singola azienda agricola. Inoltre, tra i limiti, "in frutticoltura non si possono mappare gli insetti – riprende la Profeti – così come, finché si vola sopra la chioma degli alberi, non si possono vedere eventuali danni al tronco, dove si manifestano molte malattie vegetali. Su questo versante si stanno ora testando soluzioni per poter montare dei sensori sui trattori"; un filone probabilmente più promettente dei droni terrestri (con ruote e/o cingoli), dove il problema maggiore è il contenimento dei costi.

Nel convegno si è parlato anche dell'uso dei big data, cioè la grande mole di informazioni raccolte direttamente in campo da vari sensori (centralina meteo, pluviometri, sensori per l'umidità di aria e terreno, sensori per la misurazione delle radiazioni solari e del bagnato fogliare, etc etc), che necessita di essere rielaborata. Il sistema Netsens, presentato nell'occasione, costituisce una piattaforma per aiutare il produttore a prendere le decisioni in materia di irrigazione e difesa fitosanitaria.


Antonio Manes, della Netsens.

In chiusura di convegno, in tema di lotta ai parassiti del terreno, si è parlato di un'innovativa tecnica, ancora in fase di studio, per il controllo dei parassiti del pomodoro: la biofumigazione. "Nelle brassiche – spiega Alessandro Infantino, del CREA di Bologna, centro di ricerca che sta studiando la tecnica – le cellule contengono glucosinolati che, nelle piante integre, sono incapsulati. Quando la pianta si rompe o viene tagliata, degli enzimi li trasformano in isotiocianati che hanno un ruolo nel controllare i parassiti. Nella biofumigazione, le brassiche tagliate vengono usate come un sovescio. Le prime sperimentazioni hanno dato buoni risultati, ma non abbiamo ancora una risposta definitiva, anche perché il sistema non si può utilizzare su alcune colture e per il sovescio serve quasi una stagione intera".

Contatti:
OP Etruria Royal Fruit - Società Agricola Consortile a r.l
Via Damiano Chiesa, 56
58100 Grosseto (GR) – Italia
Web: www.etruriaroyalfruit.it