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Commenti di operatori e aziende nei confronti del nostro articolo su caporalato e prodotto etico

In relazione al nostro recente intervento dal titolo "Caporalato: ma il prodotto etico ha un mercato oppure no?", diverse sono state le considerazioni giunte in Redazione; da chi ritiene che un'azienda che lavora nella legalità non debba essere sottoposta a ulteriori certificazioni di prodotto, a chi pensa - senza entrare nella questione del libero mercato - che se un'azienda lavora bene ("eticamente", diciamo) abbia un costo di produzione facilmente calcolabile e uguale a tutte le aziende che lavorano bene.

Perché dunque ai vari operatori viene permesso di acquisire e/o addirittura contrattare prodotti al di sotto del costo di produzione? Il settore agricolo, insomma, sembrerebbe l'unico ad andare contro la logica del mercato, vendendo le proprie produzioni a meno di quanto costa produrle.

Secondo un altro produttore, rimane vero che la risoluzione del problema è nelle mani del consumatore. Che va dunque informato, educato, coinvolto... ed è quello che si propongono di fare organizzazioni per il commercio equo e solidale, non solo all'estero, ma anche in Italia. Torneremo presto su questi temi.

Quel che è certo è che non si possa risparmiare né sul lavoro dei braccianti né su quello dei produttori agricoli solo per far quadrare i conti. Il lavoro ha già subito troppe umiliazioni, nel nostro Paese e non solo, per continuare su una china pericolosa, alla fine della quale spiegatemi la differenza che c'è con quelle che un tempo si chiamavano servitù della gleba o schiavitù.

Detto questo, sta anche alla base produttiva organizzarsi meglio per evitare una inutile e dannosa "guerra tra poveri", in cui pare non esserci un limite al ribasso, virtualmente per qualsiasi prodotto ortofrutticolo di massa. Fare delle scelte, anche drastiche, di selezione tra un'offerta indifferenziata, rimane una delle poche strade percorribili per risalire la china.