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Ortofrutta a lotta integrata: servirebbe un marchio per riconoscerla

Il biologico ha un suo marchio e un bollino di riconoscimento, mentre l'integrato no. Il consumatore non ha quindi la facoltà di riconoscere la differenza fra il prodotto a lotta integrata e uno alla "viva il parroco", cioè prodotto senza particolari criteri. A sottolineare questa anomalia è Simona Caselli, assessore regionale all'Agricoltura dell'Emilia Romagna, ribadendolo a ogni convegno.



"La lotta integrata (L.I.) è nata in Emilia Romagna nei primi anni '80 (cfr. FreshPlaza del 14/07/2016) - afferma l'assessore - e da quel momento si è evoluta. Oggi siamo a una L.I. evoluta che, in taluni casi, è di poco inferiore alla quella biologica. Nella nostra regione, infatti, l'asticella è molto alta. Ad esempio, la nostra L.I. nel pomodoro da industria ha un disciplinare molto rigido, molto di più, ad esempio, dell'analoga tecnica in Lombardia".



Sul perché negli anni i valori della lotta integrata non siano stati comunicati al consumatore, è presto detto. E' vista di più come una tecnica rivolta agli agricoltori e a loro si ferma. Fa risparmiare trattamenti, ridurre i costi, intervenire solo quando serve. Eppure a valle di questi ragionamenti vi è il consumatore, che acquista ortofrutta più sana rispetto alla difesa effettuata senza particolari accorgimenti.



"Non è detto che sia troppo tardi per valorizzare la lotta integrata", ha ribadito più volte l'assessore. Di certo, oggi il consumatore è sempre più proiettato verso il biologico e, da non trascurare, il sostenibile (cfr. FreshPlaza del 17/05/2018). Le catene della Gdo in realtà sfruttano i principi della lotta integrata, ma facendoli apparire come una loro conquista e non il frutto del lavoro svolto dalla base produttiva. La Gdo garantisce la salubrità delle produzioni, perché a monte c'è un agricoltore o una Op che traccia la filiera ma, al consumatore, la Gdo stessa comunica solo con il proprio marchio e difficilmente dà il giusto merito alla base produttiva.