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Aumenta la percentuale nei succhi d'arancia, ma i distinguo sono d'obbligo

Dopo sessant'anni, storico stop alle aranciate con maggiore percentuale di frutta nelle bibite per via dell'entrata in vigore del provvedimento nazionale che innalza dal 12% al 20% il contenuto di succo d'arancia delle bevande analcoliche prodotte in Italia e vendute con il nome dell'arancia a succo o recanti denominazioni che a tale agrume si richiamino.

La notizia è stata resa nota qualche giorno fa, quando è stato dato seguito all'applicazione delle disposizioni contenute nella legge 161 del 30 ottobre 2014 che scattano dal 6 marzo, cioè trascorsi dodici mesi dal perfezionamento con esito positivo della procedura di notifica alla Commissione Europea del provvedimento in materia di bevande a base di succhi di frutta come richiamato dal comunicato della Presidenza del Consiglio del 24/5/17.



La notizia ha tutto il sapore di essere foriera di importanti novità, che meritano di essere approfondite. FreshPlaza ha voluto vedere più da vicino cosa ne pensano gli stakeholders. Ci è sembrato importante partire proprio da chi, in Sicilia, si occupa di trasformazione di agrumi, come Giuseppe Ingrillì, industriale del settore.

"L'innalzamento del contenuto minimo di succo di arancia - dice Ingrillì - rappresenta senza dubbio alcuno una conquista dal punto di vista della tutela della salute dei consumatori sia per il maggiore apporto di vitamina C sia per la riduzione nell'utilizzo di zuccheri e aromi aggiunti. E' tuttavia opportuno puntualizzare che, nonostante costituisca un passo in avanti in termini strettamente salutari e alimentari, tale norma non porterà necessariamente a un aumento proporzionale nel consumo o nella richiesta di arance italiane. Un aumento nel contenuto di succo di arancia, infatti, causerà inevitabilmente un notevole aumento nei prezzi dei prodotti finiti destinati al consumatore finale, anche per il probabile aumento nel costo della materia prima, forte di una maggior richiesta".


Giuseppe Ingrillì

Il distinguo di Ingrillì
"Sarà cruciale comprendere, affinché tale norma porti davvero un vantaggio per gli agricoltori - continua l'industriale siciliano - se il mondo delle bevande a base di succo di arancia, dominato storicamente da colossi multinazionali estremamente sensibili al prezzo, recepirà tale incremento o preferirà optare per soluzioni alternative che potrebbero andare dal reperire altrove le materie prime alla sostituzione totale del succo con aromi, come accaduto in passato in alcuni mercati esteri. Inutile dire che ciò potrebbe causare danni enormi al settore della produzione agrumicola italiana o, nello specifico, siciliana. Sarà adesso fondamentale valutare e monitorare con estrema accortezza la reazione del mercato italiano ed europeo".

"Esistono anche altre vie percorribili per stimolare gli agricoltori stessi a produrre e investire in maniera sostenibile - continua Ingrillì - come la valorizzazione della filiera agrumicola da agricoltura biologica, settore in cui oggi la Sicilia ricopre un ruolo di grandissimo rilievo specialmente con limoni e arance rosse. Per quanto concerne il limone di Sicilia, tradizionalmente prodotto di punta dell'azienda di proprietà della mia famiglia, sia in ambito di agricoltura biologica sia convenzionale, sarebbe auspicabile un maggior controllo della tracciabilità di filiera. Una filiera corta per prodotti premium quali ad esempio limone e arancia rossa, determinerebbe maggiori introiti per tutti gli attori coinvolti nella produzione, trasformazione e commercializzazione degli stessi e dei loro derivati".



"Una delle sfide per il mondo agrumicolo globalizzato che resta al centro della questione - conclude Ingrillì - è la tutela del made in Italy che va salvaguardato e difeso dalle imitazioni senza tuttavia cadere nel garantismo, ma spronandolo affinché diventi sempre più dinamico e competitivo".

La filiera non ci sta a una interpretazione semplicistica del provvedimento
Quella che a prima vista sembrerebbe dunque una notizia assolutamente positiva, solleva quantomeno qualche dubbio. La filiera agrumicola siciliana da anni indica il problema e si batte per la valorizzazione delle produzioni agrumicole trasformate, sostenendo l'importanza di immettere sul mercato un prodotto con la più alta percentuale possibile di agrumi.

Nel 2014, in sede di audizione in Commissione Agricoltura del Senato, tutte le categorie agricole siciliane avevano espresso parere favorevole sull'aumento sino al 20% della percentuale di succo nelle aranciate e sono anni che, anche attraverso tavoli tecnici presso l'Assessorato regionale Agricoltura, si chiedono interventi sia a livello regionale sia nazionale. Pertanto, la filiera agrumicola siciliana ha certamente accolto con soddisfazione la decisione di aumentare la percentuale di succo nelle bibite dal 12% al 20%, seppure si tratti sempre di valori ancora troppo bassi.

Se tuttavia non si assicura la tracciabilità del prodotto con una normativa ben chiara, è praticamente impossibile garantire l'impiego di succo proveniente dalle produzioni italiane e siciliane e sta solo alla sensibilità etica delle aziende produttrici di bibite decidere se utilizzare succo italiano o approvvigionarsi all'estero. La normativa, infatti, è entrata in vigore solo in Italia e tale provvedimento non può considerarsi risolutivo o a valenza universale. Non lo è per la tutela dei consumatori, non lo è per la valorizzazione dell'agrumicoltura italiana e siciliana in particolare, essendo la Sicilia la regione più agrumetata d'Italia, con il 58% della produzione nazionale.

Un vantaggio per chi?
"L'aumento della percentuale minima di succo nelle aranciate prodotte e vendute in Italia, senza però indicare la provenienza delle arance, rischia di diventare una vittoria dei furbi – ha affermato il Coordinamento di Agrinsieme, costituita da Cia, Confagricoltura, Copagri e Alleanza delle cooperative agroalimentari (Agci-Agrital, Fedagri-Confcooperative e Legacoop agroalimentare) - Una novità che in realtà va a scapito dei produttori agrumicoli italiani e siciliani in particolare, che da anni si battono non solo per il sacrosanto innalzamento della percentuale di succo di vere arance nelle bevande, ma anche perché nell'etichetta ne sia inequivocabilmente indicata la provenienza. La norma recentemente approvata è solo un piccolo passo verso il riconoscimento delle ragioni del comparto agrumicolo. Se non c'è certezza sulla provenienza delle arance destinate alla trasformazione in bevande, nulla vieta alle industrie di comprare a prezzi bassi arance estere o addirittura succhi esteri per raggiungere la percentuale del 20%. La vera svolta sarebbe arrivare al 100% di succo di arance italiane".



"Per valorizzare la produzione agrumicola siciliana - afferma Federica Argentati, presidente del Distretto Agrumi di Sicilia al quale aderiscono i Consorzi di tutela delle produzioni Dop, Igp e Bio oltre che Organizzazioni Produttori, Aziende singole di produzione, commercio e trasformazione della logistica e dei servizi - è certamente necessario ottenere una normativa chiara sulla tracciabilità, ma anche lavorare per chiudere un accordo di filiera condiviso fra produttori e industriali, dando vita a un monitoraggio serio e preciso della produzione che può essere conferita per la realizzazione di succo, non solo dalle produzioni d'eccellenza (Dop, Igp e Bio) ma anche da quelle non certificate comunque prodotte in Sicilia".