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Mel'arancia punta al recupero delle varieta' autoctone di agrumi piceni

Si chiama "La Mel'arancia" ed è un'associazione intercomunale per la valorizzazione di agrumi e agrumeti storici in disuso a ridosso di sette Comuni in provincia di Ascoli Piceno: Grottammare, Campofilone, Cupra Marittima, Massignano, Monterubbiano, Pedaso e San Benedetto del Tronto.

I centri interessati hanno recentemente siglato un protocollo con l'obiettivo di far ripartire una filiera che possa riguardare diversi aspetti collegati alla agrumicoltura: dal frutto fresco ai prodotti trasformati.

"Con la fondazione La Mel'Arancia si aggiunge un altro tassello importante al gruppo di lavoro che trasversalmente punta al recupero di una tradizione legata agli antichi aranceti, sia da un punto di vista agricolo, sia architettonico e commerciale con il riconoscimento delle varietà autoctone di arancio e delle loro proprietà uniche". Così riferisce a FreshPlaza il dottor Germano Vitelli, ricercatore culturale e presidente della neonata associazione, nonchè autore con Aurelio Manzi, del libro intitolato "Giardini d'aranci sull'Adriatico - L'agrumicoltura nelle Marche: aspetti colturali e artistici".

La storia degli agrumi piceni dagli albori a oggi
Anche se attualmente gli agrumi piceni (e in particolare l'arancia bionda) non sono presenti in commercio, fino agli anni Cinquanta del secolo scorso una dinamica filiera locale copriva l'intero ciclo di produzione che, dall'attività vivaistica, si estendeva alla commercializzazione, rispondendo alle richieste dei mercati delle due sponde medio e nord adriatiche.

Qui accanto: la copertina del libro "Giardini d'aranci sull'Adriatico - L'agrumicoltura nelle Marche: aspetti colturali e artistici" di G. Vitelli e A. Manzi

A darci una chiara idea dell'estensione di queste coltivazioni in pieno campo, che da San Benedetto del Tronto si estendevano a Porto Sant'Elpidio, sono documenti notarili, statuti comunali e catasti, principalmente quello napoleonico di inizio ottocento.

Rispetto al versante tirrenico, il clima del bacino adriatico è più freddo e arido e risente dei gelidi venti balcanici, così, la regione mediterranea e la coltivazione di agrumi ha il suo limite settentrionale sul litorale marchigiano delle province di Ascoli Piceno e Fermo, come confermano i testi del botanico Aurelio Manzi.



Per questo motivo, occorreva riparare le colture con costose recinzioni in muratura e altre architetture predisposte per le esigenze agronomiche, risalenti prevalentemente al XVIII secolo: terrazzamenti, arcate per i limoni, tunnel di captazione delle acque ed eleganti peschiere di raccolta e di drenaggio, sistemi di irrigazione e di copertura invernale, palombare per il fertilizzante: un rilevante impegno economico che veniva affrontato da famiglie facoltose e risarcito da un remunerativo mercato.



Queste strutture specializzate di riparo, spesso disposte su declivi "a solagna", costituiscono una peculiarità dell'agrumicoltura locale e, in concorso alla presenza delle qualità intrinseche di aranci e limoni, riuscivano ad assicurare un "giardino" perenne. Un termine che si è tramandato sui documenti e nella memoria degli anziani agrumicoltori, che li chiamavano i ciardì, coniugando questa definizione alla lunga tradizione allegorica dei Giardini delle Esperidi, di Venere, dell'Eden e al Paradiso Terrestre. Non è un caso se vi siano dubbi circa il fatto che il frutto biblico della tentazione fosse proprio una mela; altri commentatori e artisti identificano l'albero della tentazione con l'arancio o altre essenze.



Anche nel Piceno gli agrumi arrivarono ben presto: il primo documento certo porta la data del 1371 e parla della vendita di due giardini con arance a Grottammare ("giardino, orto mallorum arantiorum"), mentre il noto esploratore Silvio Zavatti, in un articolo sugli agrumi piceni del 1966, cita un manoscritto rinascimentale dove si diceva che la coltivazione degli aranci fu introdotta a Grottammare in tempi remoti da marinai siciliani, e nel XII e XIII secolo vi si coltivassero arance; anche i primi documenti pittorici locali con agrumi si datano alla metà del XIV secolo: si può asserire senza errore, dunque, che almeno dalla prima metà del 1300 questo tipo di coltivazione pregiata era pienamente affermato.

Dalla fine del XVIII secolo, gli agrumi furono anche specialità del ceto mercantile che aveva fatto fortuna pure con l'export dei pregiatissimi frutti verso le rotte veneziane e trans-adriatiche. Con l'avanzare del XIX secolo se ne ampliò il consumo, non essendo più considerati come "frutti esotici".

Rimangono testimonianze significative della cultura materiale e della tradizione, che vanno dalla cucina (tipica l'invernale "insalata di arance" con finocchi e olive nere), agli stornelli popolari, ai modi di dire (ad es. "la merarangia la matina è oro, a pranzo argento, la sera piombo").



Dopo il sostanziale abbandono dell'agrumicoltura locale divenuta non più remunerativa (dopo l'arrivo della ferrovia nel 1863 che recò con sé i più economici agrumi del sud, o la gommosi del 1855, e le famigerate gelate del 1929 e del 1956), delle numerose agrumiere a pieno campo rimangono testimonianze a volte consistenti, altre volte residuali, non di rado con soltanto poche e spesso vetuste piante, che hanno conservato preziose varietà autoctone selezionate nei secoli dagli agrumicoltori, come l'Arancio biondo del Piceno, il Biondo tardivo, il Sanguinello e il Limone Pane (iscritti nei Registri nazionale e regionale delle biodiversità), o piante particolarmente vecchie, come l'arancio Patriarca della storica agrumiera Bacher di Grottammare.

A seguito di precedenti studi e dopo una lunga ricerca confluita in un primo volume "Giardini d'aranci sull'Adriatico. L'agrumicoltura nelle Marche, aspetti colturali e artistici" di Aurelio Manzi e Germano Vitelli, coordinata per l'Archeoclub di Cupra Marittima da Vermiglio Ricci e pubblicata nel 2016 dall'editore Livi (seguirà un secondo testo sugli aspetti storico-archivistici e architettonici), è in corso un progetto interdisciplinare di recupero dell'intero sistema agrumicolo promosso dall'Archeoclub, con protagonisti Enti, Comuni, Istituzioni e proprietari di giardini storici, volto a riallacciare le fila della consistente tradizione territoriale, che nell'arco di qualche generazione rischia di essere completamente abbandonata e dimenticata.